Sono tornati. E non è un ritorno come un altro. Gli Underworld hanno fatto la storia. E l’hanno fatta a modo loro: una cosa che si capisce ancora di più leggendo con attenzione le risposte che c’ha dato Karl Hyde in questa bella chiacchierata che ci siamo giocati in un albergo londinese tra le stazioni ferroviarie di Euston e St. Pancras (“Mio padre da carpentiere ha contribuito al restauro del soffitto della stazione di St. Pancras, infatti prima sono andato a farmi un giro col naso per aria…”). Una chiacchierata dove si parla di tutto, partendo dal loro lavoro ora in uscita “Barbara Barbara, We Face A Shining Future” ma arrivando ad abbracciare tutto lo spettro della loro carriera, momenti di crisi compresi. Anzi: visto che Karl è un interlocutore che ti mette talmente tanto a proprio agio (e con cui comunque ci si era già beccati in passato, lui se ne ricordava), abbiamo potuto esordire anche in modo poco diplomatico. E’ stata la scelta giusta: la conversazione si è dipanata benissimo.
Senti, posso dirti che da “Beacoup Fish” in poi la qualità delle vostre release era andata drasticamente in calando?
Eh. La verità è che quando stai bene, quando tutto attorno a te è troppo comodo e troppo organizzato, beh, la creatività muore. Questa è la verità. E noi in quel momento eravamo all’apice del successo, o meglio, dei benefit che il successo ti può dare. Poi, un’altra cosa: un conto è essere presenti, esserci con la testa; un conto è inventarsi chissà quale stress ed essere presenti sì fisicamente ma lamentarsi tutto il tempo, continuare a ripetere che è tutto troppo, hai troppo da fare, è tutto un casino – e allora cosa fai?, allora chiami altre persone che possano aiutare, risolvere, fare, e in quel momento pensi di esserti semplificato le cose ma la realtà è che diventa tutto più complicato, e quando le cose sono complicate passi più tempo a cercare di venirne fuori e risolverle invece di star lì ed essere creativo per davvero. Ed è un processo che non fermi, che si nutre di se stesso, cresce, cresce, cresce, fino a quando non ti trovi a gridare: BASTA. Ecco. A noi era successo così. A me era successo così. Ad un certo punto io e Rick abbiamo smesso di vederci, ognuno si è messo a fare le cose sue. E’ stato necessario e, sicuramente per me, è stato anche utile: ho lavorato con gente straordinaria, da cui ho imparato tantissimo. Gente anche con cui era bellissimo lavorare. Solo che ad un certo punto ho iniziato a provare una sensazione strana: mi mancava qualcosa. Cosa? Non capivo. Cosa? Continuavo a chiedermelo. Fino a quando me ne sono reso conto: Rick. Quel rompicoglioni di Rick, sì. Quello che spacca il capello in quattro. Quello che non ti rassicura mai. Ma mi mancava. Poi è successa la cosa del tour celebrativo di “Dubnobasswithmyheadman”. Un tour che, te lo giuro!, non volevo fare.
No?
No! Mamma mia: rifare i propri dischi di mille anni fa, tali e quali? Che cosa triste! Che mossa da gruppo disperato, che tenta pateticamente di restare a galla! Mi sembrava una cosa idiota, orribile.
E invece quel tour l’avete fatto, guarda un po’.
Quando alla fine abbiamo detto di sì, io appunto con scarsissima convinzione, Rick ha avuto l’idea giusta: non solo rifare il disco dal vivo così, in generale, ma rifarlo proprio uguale. Uguale-uguale. Ad esempio: a me chiedeva di ricantare i pezzi nello stesso, identico modo. Identico proprio! Per riuscirci, ho dovuto veramente tornare a cosa mi passava per la testa in quegli anni, alle idee, alle illusioni, alle paure, alle esaltazioni. Facendo così, sai cos’è successo? Ho ritrovato emozioni e sensazioni che avevo completamente perso per strada. Completamente. Con quali effetti? Beh, il più forte è stato guardare al mio socio, Rick, all’improvviso con occhi diversi. Scoprire che “Ehi, a me piace questo tizio, lavoro bene con questo tizio, ho fatto delle cose meravigliose con questo tizio. Amo la sua onestà. Amo la sua franchezza, anche se è rude. Magari non ci piacciamo come persone ma ehi, con lui e solo con lui faccio delle cose bellissime”; iniziando a pensare questo, poi abbiamo ripreso a piacerci anche umanamente. Ma tantissimo. Col risultato che quello è stato di gran lunga il tour più bello della mia vita – un tour che non volevo nemmeno fare. E col risultato che siamo tornati amici, io e Rick… Anzi, no, guarda: siamo diventati amici, come dire?, per la prima volta. Ti racconto com’è andata: alle prime prove per questo tour siamo arrivati animati sì dalle migliori intenzioni, ma da estranei o semplici conoscenti. Non volevamo subito buttarla in vacca, volevamo sinceramente essere uno gentile nei confronti dell’altro. Una cosa strana, sai? Per noi una cosa nuova. Tipo, come fossimo due estranei. Due estranei molto gentili e cortesi, che si incontrano per la prima volta e usano molta educazione. Bizzarro. E’ durato poco, abbiamo superato in fretta questa prima fase “formale”, ma è stata utilissima. Ci ha rimesso insieme nel giusto modo, senza scorie. C’abbiamo messo poco a ritrovare l’abituale complicità, ma stavolta su basi assolutamente rilassate, più pulite, meno ostili. In questo modo abbiamo scoperto, o riscoperto, una fiducia l’uno nell’altro che prima era andata completamente persa.
Che si è tradotta in un disco che in effetti per me riporta in alto l’asticella della qualità, dopo un po’ di mezzi passi falsi. Un disco tra l’altro con molte chitarre…
Ah, io sono sempre stato un amante delle chitarre. Fin da quando avevo sette anni.
Del tuo amore per le chitarre lo so; del fatto che sei anche un chitarrista più che valido, pure. Che poi tra l’altro pochi sanno che ad un certo punto, per tirare a campare, eri anche finito negli Stati Uniti, negli studi di Prince, a fare il turnista.
Vero, vero. E comunque, parlando di chitarra e del fatto di suonarla poterlo fare lavorando con Brian Eno è stato fantastico, parlando un po’ del periodo in cui c’è stato un mio effettivo “stacco” sul progetto Underworld. Io sono cresciuto col funk, sono cresciuto con la Motown. E’ proprio per questo che amo la musica dance: perché prima di tutto io sono un chitarrista ritmico! E infatti, mentre incidevo con Eno, lui ad un certo punto mi fa “Ok, qua in queste tot battute ti lascio spazio per l’assolo di chitarra, vai”. Io mi metto a suonare. Lui, messo davanti a me, nello studio di registrazione, dopo un paio di minuti mi fa cenno di fermarmi: “Tu non sei in grado di suonare degli assoli, vero?”, con aria un po’ sorpresa un po’ sorridente. Nota bene: nei giorni precedenti aveva passato un sacco di tempo a lodare le mie capacità tecniche da chitarrista, e non certo per piaggeria o quieto vivere. Era sorpreso veramente. “No, vero. Non mi interessa niente degli assoli. Mi rompo i coglioni a farli. Una noia. Io voglio fare il chitarrista ritmico. Voglio fare quello che “tiene tutto assieme”. Voglio suonare funk, voglio suonare in un mondo che diventi quasi trance, e quando diventa quasi trance è pronto per essere messo sulla techno”: e dando questa risposta mi sono reso conto di quanto la persona che più e meglio conoscesse questa mia personalità artistica fosse Rick, lui tutto questo lo sapeva, l’aveva capito fin da subito, fin dai tempi in cui ci dibattevamo tra Freur e la prima fase degli Underworld – quella prima di finire nell’orbita della club culture – quando sembrava non andassimo da nessuna parte. Ed era colpa mia, tra l’altro, se non andavamo da nessuna parte. In quel periodo volevo essere una popstar, volevo stare nelle classifiche, volevo giocare quel gioco lì. Solo che, peccato, per quel gioco lì noi Underworld non eravamo mai abbastanza bravi. Non è un complotto di nessuno: eravamo noi che, per quel gioco lì, non avevamo qualità a sufficienza. Non avevamo quel talento lì.
Colpa tua, dicevi? Tutta colpa tua? Eri tu e solo tu? Veramente?
Assolutamente sì. Poi col tempo abbiamo elaborato questa cosa, insieme, io e Rick, e oggi ne posso e possiamo parlare tranquillamente. Il bello è che avrei dovuto capirlo subito, i segnali c’erano tutti: la musica più interessante la producevamo proprio quando non eravamo sotto nessun contratto discografico, io lo sapevo, lo sentivo, solo che quella “musica interessante” non interessava minimamente a nessuna delle discografiche, a nessuna porta a cui bussavamo. E’ che bussavamo alle porte sbagliate, perché per un sacco di tempo erano sempre le solite: ma questo lo capisci dopo. Ed entrando a contatto con la Junior Boy’s Own, nei primissimi anni ’90, questo lo abbiamo finalmente capito. La svolta è stata appunto abbandonare l’industria discografica tradizionale, finire in un circuito – quello dance – che tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 era completamente slegato dal resto e viveva di regole sue proprie. I rave, la dance erano sì una cosa gigantesca durante la Summer Of Love o poco dopo, ma soprattutto nei primissimi anni erano completamente slegati dall’industria musicale tradizionale. Completamente. Erano incredibilmente cool, essere scelti da loro ti dava immediatamente una coolness pazzesca: quindi quando decisero di prenderci a bordo fu fantastico, gli Underworld da un momento all’altro passarono dall’essere un progetto di sfigati che c’hanno provato ma non ce l’hanno fatta e mo’ si trascinano pietosamente a qualcosa, invece, di incredibilmente nuovo ed attraente. C’erano gli X-Press 2 in Junior Boy’s Own, c’erano i Chemical Brothers che ancora si chiamavano Dust Brothers; soprattutto, c’era da parte della gente della label la perfetta accettazione del fatto che noi, gli Underworld, eravamo una cosa particolare. Eravamo una band. Non eravamo un dance act, eravamo una band, e a loro questo andava benissimo, anche se loro erano in teoria un’etichetta dance: non ti chiedevano compromessi, non ti chiedevano di svenderti ai loro desideri e alle loro indicazioni. Il contrario delle major. E noi eravamo strani. Oh se eravamo strani. Quando finalmente abbiamo varato gli Underworld secondo l’assetto voluto da Rick, che è quello per cui c’avete conosciuto dagli anni ’90 in poi, per me è stato fondamentale “Low” di David Bowie. C’ho messo un bel po’ a capirlo, quel disco. Perché era il disco in cui l’icona delle icone, il Duca Bianco!, Ziggy Stardust!, improvvisamente si metteva dietro a delle macchine, canticchiando giusto qualcosa ogni tanto. Uno choc. E ascoltandolo per bene ad un certo punto ho capito: se la musica è buona abbastanza, tu come vocalist puoi anche fare tranquillamente un passo indietro. Arrivare a questo consapevolezza è stato salvifico. Perché sì, nella versione “nuova” degli Underworld dopo il periodo pop canonico iniziale all’inizio mi sentivo perso: perché non capivo bene dove era il mio posto… sì, ero il cantante, ma non ero più il cantante… cioè, non ero io il fulcro di tutto. Che poi, sai qual è la cosa divertente? Andavamo dalle etichette, ci andava Rick, e gli dicevano “Ah, fate musica dance ora? Va bene, va bene, ma senti, la dance non ha bisogno di un cantante, liberati di quel coso lì”. Questa cosa è vera, me l’ha confessata anni più tardi un tizio della Island – Rick non me l’aveva raccontato – dicendo “Devi scusarmi, i fatti hanno dimostrato che ero assolutamente in errore”. Io l’ho rassicurato: “No amico, non eri assolutamente in errore. In quegli anni era effettivamente così: l’unica roba vocale nella dance erano i sample presi dal soul, al massimo ci piazzavi lì una corista nera di quelle potenti”. C’erano in quella fase storica dei gruppi pop che rubacchiavano di qua e di là dagli stilemi dance, ma erano pur sempre dei gruppi tradizionalmente pop, nella loro struttura. Noi no. Noi eravamo proprio una cosa “altra”. Qualcosa che non c’era. Eravamo una band dance, ecco. Un progetto dance con un frontman alla voce. Tutti i progetti dance attorno a noi che diventavano importanti, non avevano certo questo tipo di struttura. Poi però è successa una cosa molto divertente…
Ovvero?
Ovvero, abbiamo iniziato ad avere successo! E quando noi abbiamo iniziato ad avere successo, abbiamo sentito i discografici delle major dire a un sacco di loro assistiti “Li vedete gli Underworld? Ecco, fate come loro. Funziona!”. No! No! Non fate come noi, maledizione! E’ l’errore peggiore che potreste fare! Perché la nostra fortuna è stata proprio NON seguire degli esempi. Però sì, sarò sempre grato a “Low” di Bowie: non che l’abbia seguito come esempio, mi ha fatto però capire che era possibile essere un frontman e al tempo stesso ogni tanto “scomparire” dietro alle macchine. Ho capito come essere, da cantante, “al servizio” della parte ritmica, come supportarla. Ho imparato ad inserirmi solo lì dove ha senso farlo, dove c’è un gap da riempire, o un crescendo da sostenere. Ecco, per certi versi ho imparato ad usare la mia voce e il mio ruolo da frontman come fosse un sintetizzatore.
Senti l’esigenza di essere iper-aggiornato su quello che succede nel mondo dell’elettronica, oggi come oggi?
No. Ed è una scelta intenzionale. Sia mia che di Rick. Al momento di fare un disco, anche proprio per il principio che ti dicevo prima del non assomigliare a nessuno, non vogliamo essere condizionati – anche inconsciamente – dal voler interagire col “suono del momento”. E’ qualcosa che ti imprigiona, che limita la tua libertà creativa, che tu lo voglia o meno.
Vi è mai capitato di essere imprigionati? Che poi guarda, bel paradosso, c’è stato un preciso momento storico in cui il “suono del momento” eravate proprio voi…
Sì, vero. Magari non solo noi, ecco, però sì, eravamo diventati un punto di riferimento. Però ecco, ti posso dire che sono molto orgoglioso del fatto che noi non abbiamo mai voluto specificatamente fare parte della scena dance, prendere il ruolo di suoi protagonisti. Siamo sempre stati fuori dalle sue dinamiche, dai suoi giochi, dai suoi equilibri. Chiaro, le cose che produceva le ascoltavamo intensamente, a partire da Fingers Inc, le cose house di Chicago, in generale tutto quello che Darren Emerson suonava nei suoi dj set; poi c’è stata pure la fase in cui la drum’n’bass era ovunque, e ovviamente ne siamo stati influenzati anche noi, ma è sempre stato impossibile catalogarci in un filone ben preciso, correggimi se sbaglio. Non siamo mai stati semplicemente techno, o semplicemente trance, o semplicemente non so cosa. Una atipicità, questa, a cui siamo legatissimi anche oggi.
Che poi essere atipici, non avere punti di riferimento, eccetera: tutto molto bello, ma può anche essere un’arma a doppio taglio. Ad esempio, ora per fare “Barbara Barbara, We Face A Shining Future” non avete avuto dei momenti in cui vi sembrava di non avere una direzione precisa, di girare un po’ a vuoto, senza sapere bene dove stavate andando?
Non c’è mai stata una direzione precisa, infatti.
E la cosa non vi faceva paura?
No!
Eddai, a non sapere in quale direzione andare poi ci si finisce col perdere… o almeno questa è la preoccupazione che può venire.
Beh, sai qual è la cosa fantastica? Non ci siamo persi! …ma sai perché? Perché non potevamo perderci. Avevamo e abbiamo, finalmente, uno fiducia nell’altro. Come mai prima.