A tre anni dall’acclamato esordio con “Regardez Moi”, Frah Quintale è tornato con un nuovo progetto dal titolo “Banzai” (Lato Blu), prima parte di un progetto che si concluderà (forse) in inverno. Lo abbiamo intervistato per parlare del disco nuovo, del suo modo di lavorare, e di come si vede all’interno della scena musicale Italiana.
Volevo partire da un luogo comune, si dice sempre che il secondo disco sia il più difficile da realizzare. È stato così anche per te?
Abbastanza, è così soprattutto se il primo è andato bene. In realtà io di dischi ne ho fatti più di uno, ma dopo “Regardez Moi” c’era molta aspettativa, vero, e quindi il difficile del secondo disco non è tanto il farlo in sé quanto gestire le pressioni che ti circondando. Detto questo, è difficile sì ma non impossibile. Secondo me si passano delle tappe obbligate di paranoie e sbattimenti, che però sono le cose che poi aiutano a fare gli eventuali terzi dischi. Sapevo ancora prima di iniziare che sarebbe stato difficile, poi ad aumentare il livello di stress c’erano tutte le persone che conosco e che mi chiedevano: “Ma quindi il secondo disco è più difficile?”. Ti direi quindi che la difficoltà sta più nel riuscire a rimanere concentrati e non pensare a niente, nonostante l’attenzione. Quando fai il primo non hai questi problemi, vai dritto e non ci pensi. Bisogna imparare a gestire le aspettative, poi sono convinto che prima o poi le cose vengono e che bisogna solo buttarsi. Anche il titolo del disco, “Banzai”, volevo desse quest’idea, dell’andare avanti, del buttarsi.
Io la prima volta che ho letto il titolo ho proprio pensato a qualcuno che si sta tuffando a mare, e nel farlo urla “Banzai!”
Esatto, il senso è proprio questo.
Si assiste spesso ad artisti che fanno uscire un disco all’anno, un pezzo al mese; tu invece sei stato fermo per tre anni, che nell’era dello streaming sono un’era geologica. Come mai questa scelta?
“Regardez Moi” è uscito nel 2017, ma io l’ho portato avanti fino al 2019. È stata lunga l’attesa per questo secondo disco perché è stata lunga la vita di quello precedente; e invece spesso capita che ne esca uno nuovo ogni sei mesi, perché il lavoro precedente ha avuto vita brevissima. Io sono molto contento così. Il mio primo album mi ha cambiato la vita, e se penso anche a quello che è successo con Netflix, che ha usato “Missili” con Giorgio Poi (un pezzo vecchio di due anni) e gli dà di nuovo vita, sono ancora più soddisfatto. Per come sono fatto io, e per il tipo di musica che faccio, ho bisogno dei miei tempi, di fare le mie cose, senza dove correre dietro a nessun trend e all’hype. E per me è un privilegio poter “fare quello che mi pare”: perché rinunciarci? Poi ho anche un pubblico molto ricettivo che si aspetta molto da me: e se le aspettative sono alte devo fare cose belle… e le cose belle hanno bisogno di tempo, no?
Mi ricordo che nel 2017 eravate usciti tu, Carl Brave & Franco126 con “Polaroid” e Coez con “Faccio un casino”, tre lavori che hanno rappresentato una bella svolta per la musica italiana, e secondo me “Regardez Moi” è il disco che è partito forse più in sordina, ma che ha avuto la vita più lunga, la continuità maggiore.
Era un momento di cambiamento, il 2017 è stato un anno fortunato per la musica italiana, ci sono stati anche i Coma Cose per esempio, ed è bello vedere quanto il panorama sia cambiato. Come dicevi tu prima sembra davvero passata un’era geologica, perché in questi anni è cambiato davvero tutto. Io però non mi sento soggetto all’hype o alla necessità di esserci a tutti i costi. Il mio approccio alla musica è talmente personale, che ho la fortuna di potermi dire “non è un problema se salto un giro”: perché alla fine vedi, quando esce il disco si vede il lavoro che c’è dietro e apprezzi così anche l’attesa. In più anche il fatto di arrivare, stare per più tempo degli altri, poi sparire per un po’, poi tornare di nuovo, è forte. Non ci sono sempre; ma quando arrivo, arrivo per davvero.
Raccontami del pezzo con Deda, com’è nato?
Ho una chat con degli amici, dove c’è dentro anche Phra Crookers che un giorno mi dice “Mi ha chiesto Deda se può entrare nella chat”: chiaramente ho detto di sì! Dopo di che io e lui ci siamo sentiti in privato e mi ha detto che aveva una cartella di beat da mandarmi. Mi sono quindi ritrovato con 40-50 strumentali di Deda sul computer. Una sera durante il lockdown ero in studio e ho fatto il pezzo “La Calma”; ho però aspettato due settimane a mandarglielo perché ero un sacco in ansia, tanto che lui ad un certo punto mi ha scritto pensando che non se ne sarebbe fatto niente mentre in realtà io ci avevo scritto sopra subito, e stavo solo cercando coraggio per inviarglielo. È quindi nato tutto con molta naturalezza: è stato lui a dimostrare interesse per il mio lavoro, e sono stato molto contento di poterci lavorare assieme, anche perché io sono proprio scuola Sangue Misto, quindi puoi capire la mia soddisfazione di essere il primo dopo tanto tempo che esce su una produzione di Deda. Per me è stato realizzare un sogno.
Credo che molti fan del rap siano impazziti, quando hanno visto quel nome…
Figurati io quando mi ha mandato i beat, non me ne capacitavo.
Entrando nel disco nuovo, qual è stato il motore che ti ha dato la spinta per scrivere Banzai?
Quella di dimostrare di poter andare controtendenza. Siamo sempre stati delle mosche bianche, e la sfida mia era quella di dimostrare che si possono fare scelte anche inusuali, o quanto meno diverse. In più volevo fare un bel disco, un bel prodotto curato e fatto nel modo migliore possibile, dimostrando che la qualità paga al di là degli streaming, e dell’esserci ad ogni secondo. Siamo un po’ degli artigiani (per noi intendo Undamento), preferiamo perderci sei mesi in più lavorando ad una cosa, per ottenere però poi alla fine quello che vogliamo, per come lo immaginiamo e concepiamo. È importante secondo me non essere soggetti a scadenze, o ad attitudini che poi non sono le nostre.
(“Banzai”; continua sotto)
“Regardez moi”, come dicevamo prima, era un disco uscito in un momento particolare e fortunato, e che però (a modo suo chiaramente) si incastrava bene in questa nuova musica italiana che stava nascendo. “Banzai” secondo me è un passo avanti, sia in termini di riferimenti che io posso cogliere – meno italiani e più vicino ad artisti come Tyler the Creator, Anderson Paak, Childish Gambino et similia – sia nel desiderio di alzare l’asticella. La domanda è in due parti: c’era il desiderio di fare una cosa più personale e di effettivamente fare un salto in alto? E poi, quali sono stati i riferimenti italiani o esteri per questo disco?
Sì assolutamente, c’era l’esigenza di uscire dal “calderone dell’indie” – passami il termine. “Regardez moi” poteva essere infilato in quel viaggio più it-pop, mentre in questo caso volevamo proprio fare una cosa più personale, con il nostro stile e il nostro marchio. L’attitudine del nostro gruppo di lavoro è meno etichetta discografica italiana e più collettivo di ragazzi che fanno musica: ci sentiamo delle mosche bianche in Italia e quindi non ci interessava associarci a quel filone musicale, che rispettiamo, chiaramente, ma noi volevamo fare la nostra musica. In più, io avevo bisogno di discostarmi dalla cosa dell’indie: ma non per presunzione, ma proprio per dire “Noi facciamo la nostra musica”. Volevo evidenziare queste differenze anche per far capire i nostri riferimenti. In questo senso c’è la ricerca all’essere internazionali, vero, ma questo è dovuto al fatto che il nostro ascolto e il nostro gusto arriva totalmente da fuori, c’è molto Tyler the Creator, molto Anderson .Paak, ma anche ascolti miei più tamarri come 21 Savage – tutte cose che in Italia ci sono poco e, quando ci sono, è più copia che ispirazione. Quello che volevo fare io era prendere questi riferimenti e farli un po’ nostri. Per dire, la copertina del disco è totalmente ispirata alla scuola delle cover di Blue Note Records; oppure, io sono molto fan di Madlib e quindi il mio immaginario prende tanto anche da lì. C’era anche il desiderio di offrire all’ascoltatore un ventaglio più ampio di possibilità. In Italia si usano pochi riferimenti, poi chi fa musica è poco vario; quindi si prendono le solite cose che vengono riproposte e usate fino ad essere consumate, mentre il ventaglio è più ampio e la musica più grande. Per me era quindi importante prendere più spunti, farli miei, e riproporli.
All’interno del disco c’è però un pezzo come “Amarena” che a me è sembrato un brano pop all’italiana.
Sì, però è un pop italiano fatto a modo nostro, e di cui io sono molto contento.
Poi per quanto posso sperimentare da un lato, dall’altro mi rendo conto che non tutti mi possono seguire se spingo solo su un versante più ricercato e quindi sì, mi piace inserire anche tracce come questa.
Adesso soprattutto nel rap c’è la smania del arrivare all’estero e di guardare al di fuori dei confini per il futuro: tu questo fatto dell’essere in Italia lo vivi come un limite?
Sfondare in America per un italiano che canta in italiano è molto difficile. A me piacerebbe che la musica Italiana fosse magari underground all’estero; magari una cosa che qui è pop, in America potrebbe essere underground, perché no. Quando fai musica ricercata è bello immaginarsi che ci sia qualcuno dall’altra parte del mondo che ascolta e pensa: “Caspita, ci sono questi italiani, che fanno musica forte”. Non mi interessa a tutti i costi ricercare il featuring del Kanye di turno, ma chiaramente mi piacerebbe avere stima dall’altra parte dell’Oceano. Bisogna anche dire che la trap è sicuramente più fruibile in generale, la mia musica è un’altra cosa, quindi se devo sognare preferisco essere conosciuto all’estero ma non ad ogni costo, bensì per quello che faccio io. Alla fine a me interessa crearmi un mio percorso con il mio stile, e provare ad espanderlo il più possibile.
Volevo farti notare che in un mondo pieno di sciroppi e pastiglie, tu hai fatto un pezzo sull’erba; in più non hai mai parlato nel disco di soldi, orologi, vestiti eccetera, né hai usato termini come “bitch”, n-word, eccetera. È una cosa voluta e cercata? Oppure non ti sei posto neanche il problema?
Ho una scrittura diverso rispetto a quel genere di approccio: l’unica barra di cui parlo di soldi è nell’intro, ma faceva ridere perché “Nei treni la notte” dicevo che non vedevo l’arcobaleno, invece nella prima traccia del disco nuovo parlo di fogli colorati. Però vedi, sono parole velate che usano il mio linguaggio, riferimenti interni. Ci sono delle forme che a livello di scrittura sono proprio più personali, in più voglio evitare i cliché: dire quello che dicono anche gli altri non è una cosa a cui miro, ma ho l’esigenza di raccontarmi in un modo che esca dagli standard.
Insistendo ancora su questo punto: che ne pensi di tutti quei rapper che utilizzano la n-word nei testi, coi tatuaggi in faccia e armi nei video? So che è una domanda un po’ stupida, però tu hai un universo di riferimento totalmente diverso, quindi mi piaceva sentire la tua opinione
Sicuramente un bianco che usa la n-word non è okay, e su questo siamo tutti d’accordo.
Il resto mi lascia indifferente. Il rap e la trap hanno avuto sempre un linguaggio specifico, vent’anni fa si parlava del flow, delle crew e dello stile, adesso si parla di muovere i pacchi, vendere questo e quello. Ok. Alla fine il rap e la trap hanno un loro modo di parlare, quindi per entrare in quel mondo là uno usa argomenti standard, poi la musica si evolve e il discorso diventa più personale. Secondo me è quel genere che è codificato in quel modo, non puoi chiedere a un ragazzo che fa trap di fare il testo impegnato. Magari ce la fa, non lo so, però a me sembra proprio un altro codice.
“Contento” e “Buio di giorno” affrontano il tema della depressione/salute mentale e, in generale, dello stare bene. Come mai hai deciso di parlarne? E perché credi sia un tema così attuale anche nel rap italiano? Ghemon e Marracash su tutti ne hanno parlato molto nei loro ultimi lavori.
Il tema della depressione, del non voler uscire, è un tema che mi ha toccato ed era giusto parlarne. L’ho fatto con naturalezza perché così funziona la mia scrittura. Per me lo scrivere è terapeutico e la mia scrittura, soprattutto per le cose più “di pancia”, si basa molto sul mio umore. Un po’ per il disco e un po’ per problemi miei personali ho affrontato un periodo abbastanza altalenante. Nel caso di “Buio di Giorno” mi è servito per esorcizzare delle cose perché era un momento brutto, mentre nel caso di “Contento” la situazione era opposta, e scriverli mi è servito per fotografarli, così nel momento in cui mi guarderò indietro penserò “Okay, lì stavo così”. Io vivo la mia vita in base ai dischi che faccio: nel senso che quando mi guardo indietro non mi ricordo di cosa ho fatto quell’anno, ma su cosa stavo lavorando. È bello perché poi arrivi a 30 anni, e hai un percorso fatto di fotografie sonore di un certo periodo, ed è giusto sedimentare delle cose per guardarle poi dopo con calma.
Tu nei dischi non ti limiti alla musica, ma segui le grafiche, i video e in generale il packaging. È una cosa che secondo te avrà uno sbocco al di là della musica? Oppure ti interessa solo per quanto riguarda il tuo percorso personale discografico, e lì finisce?
Guarda, io vorrei più tempo per fare queste cose al di là della musica, mi piacerebbe dedicarmici di più. Adesso sto seguendo un gruppo di ragazzi che hanno una fanzine di illustratori un po’ underground: mi piacerebbe fare fumetti e direzione artistica di altri progetti. Mi interessa l’arte da ogni punto di vista insomma, e voglio potermici dedicare per il mio progetto musicale in primis, certo, ma non escludo che in futuro possa seguire anche altre strade. Il giorno che mi stufo di fare dischi magari mi metto a fare la direzione artistica di un altro progetto. E poi, anche semplicemente il fatto che io segua le copertine credo che sia un plusvalore sui miei progetti: mi aiuta avere un’idea anche visiva, e infatti noto che quando sono io a curarmi le grafiche il mio percorso musicale diventa più chiaro. Ma anche qui, è una cosa che faccio con naturalezza: semplicemente mi piace, e ci metto tutto il piacere e la spontaneità del mondo. Mi sembra di essere sia il pittore sia quello che fa la cornice, ecco. Questo rende più personale il lavoro.
È il discorso dell’artigianato che facevamo prima.
Esattamente
I live al momento sono bloccati, vero?
Sì, stiamo cercando di capire come organizzarci ma le cose si capiscono di settimana in settimana, di certo quest’estate saremo fermi.
Ultima domanda, cosa ci dobbiamo aspettare dall’altro lato di “Banzai”?
Eh, non lo so ancora. Adesso siamo concentrati su questo lato, ho ancora un bel po’ di lavoro da fare e un po’ di pezzi da chiudere; mi prenderò quest’estate per ragionare sui pezzi nuovi e chiudere il tutto.
Io pensavo che il secondo lato sarebbe uscito a breve.
No, ci prendiamo ancora un po’ di tempo. Per le cose belle, ci vuole tempo.
Foto di Valentina De Zanche