Ne nascessero più spesso, di Matias Aguayo. Su album come “Closer Musik” (2002, firmato dall’omonimo duo composto insieme a Dirk Leyers) e “Are You Really Lost” (2005) altri avrebbero campato cent’anni replicandone il modello, pieni com’erano di intuizioni futuristiche e grande musica. Lui invece ha fatto il contrario. Ha spinto ancora più in là la sua anima di apolide, ha evitato le vie facili dello show business, ha girato il mondo mettendo in piedi party di strada, ha rimesso al centro del suo progetto la natìa America Latina, ha pubblicato un altro album eccezionale fatto solo – anche se non sembra – di voci trattate o poco più (“Ay Ay Ay”, 2009) e una serie di singoli sormontata dall’epocale “Minimal” (2008), ha fondato un’etichetta dance fra le più originali e autonome in circolazione.
Proprio di lei, Cómeme, stiamo parlando. E proprio il ritornello di quel singolo ci viene in aiuto: “Basta ya de minimal”, sussurrava Matias con quasi tutti noi idealmente al suo fianco. Ma dipende sempre dal senso che si dà alle parole. Parliamo del genere musicale minimal e dello stato pietoso in cui versava al tempo? Benissimo, basta. Parliamo invece di un modus operandi che mira all’essenzialità, alla spontaneità, al fare tanto con poco, alla ripetizione come moltiplicatore di potenza? Beh, in questo caso allora poche etichette rispondono all’identikit come Cómeme. E questa seconda raccolta-manifesto lo dimostra, nel bene e nel male. Gli ingredienti sono quelli già noti a chi segue il marchio: suono analogico vecchia scuola, impregnato di electro e funk, centrato su ritmi energici e brevi tormentoni vocali, poco interessato alle mode, percorso da una vena latina non commerciale (è possibile, è possibile). Combinazione di ingenuità ed efficacia, sguardo deviante sul linguaggio dance canonico e bizzarrie assortite, con risultati altalenanti ma sempre in qualche maniera degni di attenzione.
Fra i picchi: i cinque minuti e mezzo di “De La Cabeza” degli argentini DJs Pareja, riassunto perfetto di quanto detto fin qui; la versione firmata dal boss Aguayo di “Chupa” del colombiano Sano, ghetto-house lenta e ossessiva, incongrua e scarnificata “Harlem Shake” dei poveri; la hi-nrg con voci stranianti di Daniel Maloso e Philipp Gorbachev in “Hollywood Films”; “Last Days Of The District” del solo Gorbachev remixata dal giovane Christian S, post-punk ballabile da Factory dei bei tempi con voce delirante, beat ignorante ed effetti da quattro soldi; la deep mista italo del cileno Alejandro Paz in “Free” versione Ana Helder. Il resto spinge meno, e il sospetto è che in fondo sia ancora meglio un party Cómeme di un disco Cómeme, ma grazie di esistere.