“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Citazione forse banale, ma quanto mai azzeccata: se per molti il periodo di lockdown e quarantena è stato terribile a livello psicologico, altri artisti sono riusciti a trovarci quel barlume di ispirazione che li ha spinti a continuare a creare, spesso abbandonando formule stantie ed esplorando nuove palette espressive. È il caso, ad esempio, di Valerio Rossi, aka Virtual Reality. Forgiato prima dalla scena rave romana di fine ‘90 e inizio 2000, poi dai palchi internazionali con il progetto NHB, nerd duro e puro quando si parla di sintesi e produzione musicale, VR si è letteralmente portato lo studio a casa giusto prima che scattasse la zona rossa, quella disperata di Marzo 2020, e mentre c’era chi cantava sul balcone, lui si chiudeva tra i suoi modulari. Quando la realtà ti angoscia, tanto vale crearne una parallela, virtuale. È così che nasce questo doppio album, come un Big Bang creativo dopo anni di studio e ricerca. La prima parte, “Galaxy Zoo” esce oggi, mentre per la parte due (“Hidden Galaxy”) bisognerà aspettare il 5 Aprile. La release sarà disponibile su vinile, download digitale e chiavetta USB con file lossless.
Non ci spingiamo a fare proclami stile KSHMR, ma possiamo garantire una certa qualità artigianale, quella di chi modella le timbriche con amore e dedizione. Saremo inguaribili romantici ma, ai tempi delle tracce seriali fatte coi sample pack, vedere tanta cura per il dettaglio ci fa ancora emozionare. Pieno di riferimenti interstellari, patch modulari inverosimili e soluzioni estetiche sperimentali, il doppio LP ci ha colpiti fin da subito e continua a svelare nuove sfumature ad ogni ascolto.
Incuriositi dal suo lavoro, siamo andati in visita (virtuale) agli studi di Valerio Rossi e abbiamo colto l’occasione per farci raccontare qualcosa in più sulla sua nuova release…
Link per l’acquisto su bandcamp in fondo all’articolo.
Partiamo subito dalla domanda che mi è venuta in mente appena ho ascoltato l’album: come diavolo ti è uscito un lavoro del genere?
Prima di risponderti volevo ringraziarvi per l’opportunità di questa intervista, è un piacere e un onore uscire su Soundwall.it! Riguardo la tua domanda, la storia è lunga: da un lato sono sempre stato un grandissimo appassionato di spazio (mio padre è un ingegnere elettronico e la sua professione mi ha influenzato fin da bambino), Anche se purtroppo i viaggi interstellari e planetari sono ancora dei sogni lontani per la nostra specie, l’arte è capace di colmare qualsiasi gap. L’idea specifica per l’album è nata mentre analizzavo delle registrazioni effettuate l’anno passato con i miei sintetizzatori e ho cominciato a notare delle similitudini veramente sbalorditive con alcuni suoni trovati sul sito della NASA, materiale registrato durante le loro missioni spaziali. Ho sempre avuto l’idea che il suono rappresenti un linguaggio universale, forse il più universale di tutti, e notare come i suoni sintetici siano così assimilabili a quelli “extraterrestri” mi ha lanciato un grande assist per l’idea alla base dell’album. Ho cominciato a fantasticare di poter fare un viaggio nel cosmo attraverso la mia musica e di poter portare con me tutti i miei ascoltatori. Il lavoro nasce da tantissima sperimentazione su un sistema analogico modulare. Trovo che le similitudini tra il modo in cui nascono le galassie e i sistemi planetari e il modo in cui nasce la musica all’interno di un sistema complesso di moduli, corrente e cavi elettrici sia veramente molto simile. Da qui l’idea del titolo “Galaxy Zoo” per la prima parte del lavoro e “Hidden Galaxy” per la seconda.
Parlaci un po’ del tuo approccio alla creazione, come nasce un pezzo di Valerio Rossi?
Domanda difficile, perché effettivamente non esiste un “metodo” creativo unico nel mio processo artistico. Esistono dei processi sicuramente ben delineati per quello che riguarda la post-produzione e la finalizzazione, ma la fase artistica iniziale è spesso dettata dal momento. Il modo in cui amo esprimermi è molto tattile e interattivo ed è difficile programmare qualsiasi mossa. Il mio setup di strumentazioni deve essere sempre impostato al meglio, passo anche ore a organizzare cablaggi complessi e patch articolate con il modulare, poi comincio ad agire d’istinto. Mi piace “Disegnare” il suono come fossi un pittore o uno scultore, i miei strumenti e i miei processori audio diventano a quel punto scalpello e pennello, un mezzo tra il mio cuore e il suono. A volte mi lascio trasportare da registrazioni d’ambiente che effettuo nei contesti più stravaganti, da lì prendo spunti creativi ed estetici per la sezione armonica e ritmica.
Definirei il mio approccio molto umano e istintivo: mi definisco un musicista elettronico, ma mi piace usare le macchine come fossero dei strumenti acustici, suonandoli e trattandoli come se fossero una chitarra o un basso.
E da cosa trai ispirazione? Dal nome del disco posso già immaginare qualche tema…
Mi piace prendere lunghi periodi in cui studio e analizzo nuove tecniche di produzione e sound design senza dedicarmi eccessivamente alla produzione in senso stretto, solo quando sento la pulsione creativa prendere il sopravvento, quella che qualcuno definirebbe ispirazione artistica, allora cerco di codificare quelle sensazioni in musica articolata e coesa. Lo studio e l’analisi sono però presupposti essenziali perché il momento creativo prenda il sopravvento. Di solito in questi lunghi periodi leggo e ascolto molto, principalmente materiale nuovo, anche se alcuni artisti come Brian Eno o i Pink Floyd continuano a ispirarmi da ormai 25 anni! Sono un tipo tendenzialmente curioso, sono molte le tematiche che mi appassionano, la natura e il cosmo però lo fanno in maniera quasi ossessiva, trovo nella loro essenza effimera e inafferrabile il vero significato della vita e della ricerca, anche sonora.
Dalla copertina del disco mi sembra di capire che sei un bel nerd in termini di strumentazione. Raccontaci un po’ cosa hai usato per produrre l’album.
Purtroppo si! Ho cominciato a collezionare strumenti nell’ormai lontano 2001, quando comprai la mia prima Korg Electribe, e per ormai quasi 20 anni non ho mai smesso di cercare nuovi stimoli sonori attraverso la strumentazione, a volte anche un po’ esoterica. Mi piace moltissimo anche registrare strumenti veri e ambientazioni, per questo ho sempre il mio buon Zoom tra i fedeli alleati. In questo specifico album ho deciso di utilizzare praticamente l’essenziale, cercando di lavorare il meno possibile con il computer, relegandolo alla sola fase di post-produzione e finalizzazione. Ho cablato tutto lo studio in modo da poter utilizzare sintetizzatori e drum machine senza dover ogni volta accedere alla DAW. Gli attori essenziali dell’album sono un sistema modulare che ho costruito negli ultimi 10 anni, che mi consente facilmente di unire varie tipologie di sintesi, dalla più classica sottrattiva stile East Coast fino a tecniche più sperimentali come West Coast o sintesi modale. I moduli con cui mi trovo meglio sono quelli della Make Noise e della Mutable Instrument, ma non disdegno di certo alcuni classici, come Doepfer. Alcune sezioni ritmiche le ho elaborate invece con le mie Elektron, sia la Octatrack, che è sempre attaccata al modulare per fare sampling, che l’immortale Analog Rytm. Per le sezioni armoniche e melodiche mi sono invece affidato al Deep Mind e al Virus, per le sezioni monofoniche ho usato un Moog Little Phatty e un MS20.
Ho volutamente cercato di limitare al massimo le mie possibilità, credo che le restrizioni in generale siano un grandissimo stimolo creativo: viviamo in un’epoca in cui grazie al digitale possiamo avere nel palmo di una mano quello che 20 anni fa sarebbe costato una fortuna, spesso però questo finisce per limitare la creatività. Non disdegno il digitale, credo ormai abbia raggiunto un livello sonoro ineccepibile, ma penso che un eccessivo numero di possibilità finisca per sbiadire le pratiche espressive.
In generale, come scegli quali macchine o software entreranno a far parte del tuo arsenale?
Come ti dicevo, sono solito trattare le macchine come dei veri e proprio strumenti, credo che ognuno di loro abbia un specifica anima e si adatti meglio a determinate timbriche e metodi espressivi. Anche le loro controparti virtuali sono contraddistinte da una specifica “marca sonora”. Per questo tendo a selezionare gli strumenti sulla base di due caratteristiche: l’unicità timbrica da un lato e layout dall’altro, con l’approccio creativo che deriva. Credo inoltre che, al di là del suono, alcuni macchinari storici abbiano la peculiarità di stimolare la creatività del musicista grazie al loro funzionamento semplice e intuitivo, spesso introvabile oggigiorno. Ripeto: amo i limiti, credo siano un formidabile strumento espressivo e creativo, e in questi termini tendo quindi a prediligere hardware e software che mostrino un approccio chiaro e delineato, pochi fronzoli e tanta ricchezza espressiva.
Il disco uscirà sia in vinile che su chiavetta USB e download digitale, mondi diametralmente opposti. Quale formato gli si addice meglio, secondo te?
Fosse per me sarei rimasto ancorato al solo supporto analogico, ma non per un discorso nostalgico. Credo solo che il supporto fisico e l’esperienza tattile che ne deriva rappresentino una parte imprescindibile dell’aspetto sensoriale legato alla fruizione di contenuti artistici e culturali. Allo stesso tempo occorre fare i conti con la tecnologia e la modernità, per questo ho ritenuto che la chiavetta USB potesse colmare questo gap. Da un lato recupero l’aspetto fisico e carnale del supporto, dall’altro non perdo la comodità del digitale. Credo comunque che un formato, per quanto importante, non debba necessariamente imporsi sull’arte contenuta al suo interno, non riesco decidere quale sarebbe il supporto migliore, anche se la fruizione tramite vinile rimane per me un’esperienza unica, anche il timbro dei brani ne viene inevitabilmente influenzato. Spero che anche gli ascoltatori più giovani riescano a riscoprirlo.
Parlaci anche dei tuo lavoro al di fuori dell’album, so che gestisci un’etichetta e hai altri progetti musicali paralleli. Come stanno andando?
Come hai anticipato mi do un bel da fare! Lavoro molto come sound designer e ingegnere di mixing e mastering, collaborando attivamente con molte aziende ed etichette musicali nei generi più disparati. Nel 2014 ho fondato insieme al mio socio Michele Colombo Phonica School, una scuola di musica elettronica, con sede in Lombardia, vicino a Milano. Prima di approdare al nuovo progetto Virtual Reality, ho gestito l’etichetta Audio Elite, che pubblica musica elettronica dal 2010 e con la quale ho sviluppato il progetto NHB, in collaborazione con il mio amico e fratello Federico De Marinis. Al momento siamo focalizzati su un nuovo sound più techno ed industrial, con velate influenze sperimentali, abbiamo appena fondato un nuovo progetto chiamato NØNE che vedrà la luce nel 2021. Allo stesso tempo produco molti artisti emergenti: anche se spesso mi trovo a lavorare con generi lontani dalle mie preferenze musicali, mi piace molto collaborare con giovani artisti, credo sia un aspetto imprescindibile per crescere musicalmente e umanamente.
Oltre al “fare” musica, nel tuo mondo c’è anche la passione per “insegnare” la musica. Come ci sei finito a fare questo lavoro?
La mia esperienza didattica affonda le sue radici nel 2011, quando collaboravo con il SAE Institute di Londra. Mi è sempre piaciuto molto insegnare e diffondere la passione per la produzione musicale, credo sia anche un modo intelligente per rimanere attivi ed aggiornati nello studio della materia, inoltre mi consente di rimanere ancorato saldamente al panorama musicale moderno, collaborando in maniera attiva con giovani talenti e nuove promesse del settore. Ovviamente non è un lavoro facile, spesso ci si scontra aspramente con i gap generazionali, ma questo rappresenta per me uno stimolo a migliorarmi sempre, lo prendo come una vera missione nella quale oltre a dare, ricevo tantissimo.
Sei uno che bazzica questo mondo da un bel po’ di tempo, quindi. Cos’è cambiato, secondo te, rispetto agli anni ’90 o agli anni ’00?
Sicuramente è cambiato moltissimo, se non altro per un aspetto di natura tecnologica: gli anni ’90 sono stati gli anni dei rave, gli anni ’00 quelli dell’avvento del digitale.
La musica elettronica e’ legata per definizione alla rivoluzione tecnologia e sociologica degli anni ’60 e non poteva non mutare con l’affermarsi definitivo dell’era digitale. Essendo radicalmente cambiati in pochi anni i presupposti, sia della produzione musicale che della fruizione dei giovani e delle masse, anche l’industria musicale è inevitabilmente cambiata di conseguenza. La mia esperienza come musicista nasce con la chitarra e il rock anni ’70, per poi cambiare radicalmente in un lontano giorno di fine anni ’90, quando provai il campionatore di mio fratello Fabrizio (aka Fire At Work, una tra le mie massime ispirazioni). Quel giorno fu amore a prima vista, un momento che ti cambia la vita per sempre. Comunque quelli erano anni fisici, anni da strada, come li chiamo io. Fu facile per me tradurre quell’amore nel fare musica quotidianamente, ogni sabato avevamo un party, più o meno legale, e non era raro suonare in un capannone davanti ad un migliaio di persone. Fino ai primi anni del 2000 eravamo pochissimi artisti e una infinita moltitudine di ascoltatori: ricordo un rave del dicembre 2001, vicino ad Aprilia nei pressi di Roma, c’erano più di centomila ravers accampati per quasi sette giorni! Oggi sicuramente si sta meno insieme dal punto di vista fisico, ma si è sempre connessi ed esposti. Credo che questi cambiamenti abbiano creato un cortocircuito in cui i contenuti culturali sono aumentati in maniera esponenziale, divenendo accessibili a tutti in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo, ma dall’altro lato le persone hanno sempre più difficoltà nel selezionare cosa ascoltare e nello scoprire nuovi artisti. Per capire come sia cambiato radicalmente l’accesso a questo tipo di contenuti ed eventi basti pensare che, per trovare uno dei tanti party sparsi per l’Europa nei primi 2000, dovevi chiamare un numero di telefono nella speranza di essere indirizzato correttamente, chissà dove e chissà come! Nel 2020 stiamo attraversando un momento di assestamento: vivremo molte altre rivoluzioni nei prossimi anni e sono molto eccitato nel vedere come si assesterà l’industria musicale nell’era post “streaming selvaggio”. Con questa prima uscita ho deciso di puntare tutto sull’auto produzione, come si faceva negli anni ‘90. Bandcamp rappresenta in quest’ottica un nuovo punto di arrivo e di ritorno allo stesso momento, inevitabilmente si procederà verso una maggiore scrematura dei contenuti musicali e un rapporto sempre più diretto e selezionato tra artista e ascoltatore.
Chiudiamo parlando del domani: Cos’ha in serbo il futuro per Valerio Rossi?
Purtroppo, come per tutti quanti, il momento attuale mi ha forzato a rallentare lo sviluppo di alcuni dei miei progetti futuri, molti dei quali saranno condivisi come sempre con i miei tre soci storici Federico De Marinis, Michele Colombo e Raffaele Manicone. Anche se molte delle mie energie sono ora focalizzate su Virtual Reality (ho quasi pronto un secondo album che dovrebbe uscire verso la fine del 2021), mi sto concentrando sullo sviluppo della nostra scuola Phonica e del lancio dei Phonica Studios, dalla primavera del 2021 apriremo anche a Roma, grazie alla collaborazione con LSR Factory e col nostro socio Luigi Di Filippo (aka D Lewis). Per ciò che riguarda i miei futuri progetti musicali, accanto al lancio della label “Virtual Reality”, dove vedrà la luce il doppio album da cui è estratta la premiere di oggi, sto preparando il mio nuovo progetto techno sperimentale chiamato NØNE, in collaborazione con Federico De Marinis. Abbiamo quasi pronto un video firmato dall’amico storico e talento unico Ludovico Boccianti, che accompagnerà la mia prima uscita in vinile. Il sound è molto particolare, miscela elementi sperimentali e IDM, simili a quelli che puoi ritrovare in VR, con uno stile più techno e industrial. La prima uscita e’ programmata per Aprile 2021, ti tengo aggiornato!