Scusate la nota molto personale qui all’inizio, ma per spiegare bene il discorso, beh, ci vuole. Dunque – ci sono due cose che mi stavano discretamente sulle palle in musica, nei primi anni 2000: tutta l’ondata à la Gotan Project da un lato, la minimal techno dall’altro. Ora: non era tanto una antipatia ad personam, visto che alla fine i Gotan Project non erano nemmeno malaccio (e loro persone piacevoli), e la prima minimal di estrazione berlinese aveva comunque un suo perché e una sua nobiltà, a partire da Villalobos e prima ancora da Rhythm & Sound e comunque dal fatto che forniva un nuovo paradigma sonoro alla musica da dancefloor – il che è sempre un merito a prescindere in una musica che, ad oggi, spesso il massimo di novità che riesce ad esprimere è il ritorno agli anni ’90, cara grazia.
Però sì: l’elettronica etno-carina figliata dai Gotan e la pallosa, pallosissima techno-tennistavolo (ma almeno nel ping pong il rumore della pallina non è dritto, è sincopato) sono stati dei miei nemici giurati. Li ho odiati. Hanno avvelenato i pozzi, per quanto mi riguarda. Perché hanno costruito una generazione di ascoltatori che si “accontentava”, che si faceva andare bene dei richiami world/sudamericani annacquati da un lato, una musica clamorosamente piatta dall’altro, quando invece avrebbe dovuto prendere queste musiche e dire, anzi, scandire: “Non sono mica scemo. Vai a prendere per il culo qualcun altro, con questa musica buona come sottofondo per gli aperitivi o per le droghe, e per nient’altro”.
E invece non è andata così. La copia della copia dei Gotan o anche dei Thievery Corporation è andata ad ammazzare ciò che di bello c’era nell’abstract hip hop; tutta l’ondata minimal ha colonizzato il primo decennio dei 2000 nella club culture rendendola un posto di scarsissime idee musicali e di molti fatturati facili per promoter, artisti e spacciatori. La personale risposta a tutto ciò è stata quella di tenersi strette le release Mo’ Wax o Ninja Tune o Acid Jazz degli anni ’90 da un lato, bandendo il resto, e di amare ancora di più la techno, l’IDM e l’elettronica armonicamente coraggiosa dall’altro. Era una posizione conservatrice, se andiamo a vedere l’anagrafe dei generi musicali in cui mi ero andato a rifugiare, lo so; ma per me i veri conservatori erano quelli che facevano musica “facile”, musica cioè che scientemente abbassava la qualità per poter marginare meglio sui profitti, aka fatico-poco-guadagno-tanto. Ancora ce la portiamo dietro, questa sindrome, nella techno e nell’house.
Oggi venerdì 18 marzo 2022 escono due dischi che, finalmente, mi “vendicano”. Grazie, accidenti. Grazie. Sono “Bacanadera” di D.In.Ge.Cc.O da un lato, “Triangle” degli Elektro Guzzi dall’altro. Intanto andateveli a sentire subito, eccoli per vostra comodità qua sotto uno dietro l’altro:
Se leggete abitualmente Soundwall, gli Elektro Guzzi non hanno bisogno di troppe presentazioni. Li amiamo, li abbiamo sempre spinti tantissimo e loro, dal canto loro, non ci hanno mai deluso. Il tutto si può riassumere in una frase molto semplice, quella che mi trovo a pronunciare dentro me stesso ogni volta che li sento, soprattutto dal vivo: “Ma cazzo, la minimal può essere anche bella, lo dicevo io”. Nell’avere un approccio abbastanza assurdo alla formula trio chitarra-batteria-basso, nello scegliere programmaticamente di rinunciare ai software e fare tutto con effetti analogici e suonati, hanno dato alla minimal techno esattamente il tipo di dignità che dovrebbe avere: ovvero il fatto di essere la nipote legittima del kraut rock à la Can, una cavalcata ipnotica e sciamanica in primis, dove i riff brevi non sono l’ancoraggio per le fattanze di bamba o cheta ma scheletri su cui costruire spettrali cattedrali d’emozione. Usando gli strumenti, ed uscendo dalla nerditudine sterile dell’ingegneria del suono digitale come valore in sé, riportano la musica minimale da dancefloor nella dimensione corretta. Album dopo album, live dopo live, continuano a non sbagliare nulla. Gli si potrebbe imputare di non variare troppo la formula, ma è talmente “perfetto” il modo in cui la svolgono che, davvero, fanno bene a fare come fanno. “Triangle” è l’ennesimo momento bellissimo nella loro discografia (e, come sempre, ancora più vi consigliamo di vederli dal vivo: sono strabilianti).
Discorso diverso è da fare per D.In.Ge.Cc.O, alias Gianluca D’Ingecco. Era già finito eccome nei nostri radar, un anno e mezzo fa, per un disco e soprattutto una visione che era clamorosamente sopra la media. Lì si chiamavano in causa Chicago e Berlino ma in realtà lo spettro era vasto, esattamente come in “Bacanadera” l’ispirazione diventa il Sudamerica ma un Sudamerica tutto tranne che cartolinaceo e superficiale. Questo infatti è un album che, dando prova di una competenza musicale notevolissima, attinge non dai luoghi comuni da trasmissione con Gianni Minà e Raffaella Carrà ma piuttosto dal jazz sudamericano anni ’60 e ’70. Un momento di sensazionale libertà creativa (ah anzi, fateci dire che la Far Out sta per fare una cosa bellissima: sta per ristampare il disco d’esordio del genale Hermeto Pascoal, “Hermeto”, anno 1970, release fissata al 20 maggio), in cui musica “alta” e folk si abbracciavano in una maniera strepitosa e, spesso, altamente psichedelica (d’altro canto in quegli anni lì si andava…). Dal nulla, D’Ingecco ripesca tutto questo: fosse meno che bravo e meno che competente, il rischio era quello del paciugo pretenzioso, invece “Bacanadera” ascolto dopo ascolto non fa che crescere e svelare nuove chicche di produzione, nuove delizie. A dimostrazione che si può attingere da Rio, da Baires, da Lima, da quello che volete voi senza diventare solo una diapositiva da wannabe Buddha Bar da provincia padana o foggiana, ma dando vita invece a un viaggio artistico scosceso, ambizioso, appassionante – e non solo blandamente appagante. Bravissimo D.In.Ge.Cc.O: Hermeto, qui sotto, in bassa risoluzione YouTube in attesa della reissue Far Out, lo dedichiamo anche a te.