Nel corso della storia contemporanea Parigi ha sempre avuto un fascino tutto particolare. Specialmente perché, raccogliendo quella che fu l’eredità della Firenze dei Medici nei secoli precedenti, per moltissimo tempo ebbe la funzione di convogliare l’intellighenzia artistica ed intellettuale, plasmandone e favorendone le relative correnti ideologiche in un ecosistema ricco di vita ed affamato di distinzione come pochi altri al mondo. Che si trattasse della “Belle Epoque” di Gauguin e Degas o della “Lost Generation” di Hemingway, dove si poteva prendere un caffè con Salvador Dalì e Pablo Picasso ascoltando Gertrude Stein declinare le sue poesie mentre l’avvenente Josephine Baker si preparava a danzare al ritmo della notte, per le vie della Capitale transalpina si è spesso avuta la fortuna di vivere la storia durante il suo folgorante compimento.
Non che in tempi recenti la scena musicale parigina sia stata meno folgorante, nonostante un discreto periodo di passività agli albori del nuovo millennio. Basterebbe pensare al modo sconclusionato in cui un’epopea leggendaria come quella dei Daft Punk ha preso forma per credere di dover rendere un tributo agli Dei della musica per essere sempre così spregiudicatamente subdoli nel loro operato. Del resto le situazioni dove ci si trova costretti ad uscire dalla propria “comfort zone” storicamente sono quelle che possono potenzialmente favorire gli allineamenti cosmici da cui poi scaturiscono nuove vie ed intersezioni artistiche ed intellettuali. La musica house ne è un esempio fondamentale ed i suoi pionieri una testimonianza vivente che è stata tramandata fino al vecchio Continente ed inevitabilmente ha finito per colpire a fondo anche Parigi. Dove un giovane Jeremy Fichon ha saputo negli ultimi anni raccoglierne a pieno l’eredità da altri grandi della “nostra parte della pozza” come DJ Deep – per sua stessa ammissione un caposaldo della sua educazione musicale – mettendo così le basi per una delle etichette discografiche più chiacchierate e controverse degli ultimi anni. Quella My Love Is Underground che invaderà pacificamente, nel weekend che va dal 14 al 16 di luglio, le rive dell’Arno dove, più precisamente al Parco di Villa Solaria, i ragazzi di Lattex Plus hanno deciso di fare le cose in grande e mettere insieme molto del meglio che house e techno di ieri ed oggi possono offrire per dare vita ad un nuovo festival che porterà a Firenze un’ulteriore ventata di freschezza, coronando così un processo di rivalutazione della scena cittadina che sta riportando negli ultimi tempi la Toscana di nuovo al posto che le spetta in una scena nazionale che, nel corso degli anni, l’ha vista spesso al centro del sistema, attirando giovani e non da tutto lo stivale.
Per festeggiare questo lieto evento, abbiamo pensato di raccontarvi un po’ della storia non tanto di Jeremy Underground Paris, ma della sua creatura più preziosa: una serie di uscite marchiate dal feticcio minimo comun denominatore del “vinyl only” che hanno avuto il ruolo, nei primi anni ’10 del secolo, di riportare in auge un suono fondamentale come la deep house di matrice newyorkese e del Jersey che, a cavallo fra ’80 e ’90, ha scolpito per sempre nell’immaginario collettivo figure leggendarie come Kerri Chandler, Masters At Work, Mood II Swing e Todd Terry. La storia di MLIU è stata però plasmata non tanto dalla celebrazione dei grandi interpreti di quella parentesi temporale, quanto più (almeno nelle premesse iniziali) dalla ricerca spasmodica di quei producer che sono stati inghiottiti dal tempo e che, dopo essere scomparsi dai radar, hanno semplicemente continuato a vivere la propria vita con il prezioso bagaglio emozionale di ciò che fu ad arricchire soltanto la memoria e magari anche con qualche rimpianto a fare da cornice. Jeremy, insieme all’amico Brawther (all’anagrafe Alexandre Gouyette) è andato sul campo alla ricerca di tanti di loro e quello che hanno trovato è finito per sempre impresso nella cera, come a voler pagare un simbolico tributo a coloro che l’impazienza del consumo musicale (mista sicuramente ad altri fattori) ha relegato per anni nel girone infernale dei dimenticati.
Una pratica che permette di capire quante persone stupende nel loro essere ordinarie e non iper-inflazionate a livello di personalità possano ancora sfornare un prodotto di ottima fattura con lo stesso piacere di un tempo senza finire in mano a logiche di mercato poco salubri e lontane anni luce dai fondamenti del movimento che le ha generate. Processo con cui la label ha continuato ad operare anche quando, in seconda battuta, ha iniziato ad inserire nelle proprie uscite anche nomi più giovani e promettenti scovati ai quattro angoli dell’underground come ad esempio l’ucraino Yura Khlop, in arte SE62, sicuramente uno dei migliori produttori che la deep house odierna abbia saputo offrire.
Ora però non vogliamo tediarvi troppo con le parole ma lasciare al prodotto finito la possibilità di raccontarsi per quello che è: un viaggio alla ricerca di chi ha innalzato un suono senza rimanere sui libri di storia, ma non permettendo in nessun modo che la fiamma del sentirsi parte di qualcosa di più di un semplice movimento musicale continuasse ad ardere sotto la cenere. E lo vogliamo fare con quelli che, secondo noi di Soundwall, sono stati i punti più alti di questa avventura: dieci dischi che, non abbiamo dubbi, vi faranno emozionare almeno quanto è accaduto a noi mentre li selezionavamo.
E proprio il primo EP, uscito nel 2010, è la quintessenza di cosa ha voluto essere My Love Is Underground: The Nathaniel X Project, con una intro lunghissima e profonda – più simile ad una predica che ad un vocal – ci presenta indirettamente ciò che l’etichettà avrà come suo mantra assoluto: “House music is back […] nothing can replace a good piece of wax, nothing!“