Probabilmente sono stanco di vedere sempre gli stessi nomi di djs nei soliti festivals / big clubs e nauseato dal giro di migliaia e migliaia di euro che si dividono sempre gli stessi personaggi, rovinando definitivamente la scena underground e trasformando tutto in mero business, a scapito della qualità musicale e dei parties/eventi stessi! Sarò io forse che sto invecchiando e sono sempre alla ricerca di un next step di qualità musicale, quindi raramente sono soddisfatto al 100% di quello che ascolto?!? Voi come la pensate?
(Luciano Esse)
Viviamo in un momento storico dove non sono più i djs che decidono un trend musicale ma il trend che decide i djs. #comfortzone
(Romano Alfieri)
Ecco. Questi due status recentemente apparsi su Facebook ci hanno particolarmente colpito. Hanno colpito noi, e non solo noi: sono stati infatti ampiamente notati, apprezzati, commentati, anche perché arrivano da due dj che da anni girano per la penisola e si dedicano non tanto alle parole quanto ai fatti, mettendo cioè tutto il loro impegno in modo concreto e raggiungendo bei traguardi. Luciano Esse soprattutto, col suo intervento, ha dato voce ad un “comune sentire” storicamente sempre diffuso in Italia. E, purtroppo, spesso travisato. O usato come scusa per giustificare se le cose non vanno come vogliamo noi: i nomi, guarda un po’, sono “sempre gli stessi” solo quando non sono quelli che piacciono a noi o con cui noi abbiamo rapporti più o meno diretti, questa è la verità. Tuttavia questa osservazione a margine sul suo intervento, per quanto importante, non deve far dimenticare quanto ciò che sostiene Luciano Esse sia, molto facilmente, vero: sia cioè un problema reale con cui bisogna fare i conti, se vogliamo un ecosistema del clubbing che funzioni in modo sano.
Si tornerà mille volte sull’argomento underground vs. business, ma per un motivo molto semplice: perché è difficile tracciare dei confini netti. Per qualcuno perfino Sven Väth, Marco Carola, Luciano e Loco Dice sono underground: del resto se ti sei approcciato al dancefloor coi Guetta e Calvin Harris dell’ultimo periodo, con Garrix e altre stelline EDM, effettivamente è così. Anzi, questo “qualcuno” è tra le altre cose perfino, numeri alla mano, la maggioranza degli ascoltatori di musica. Per altri, quelli invece che hanno una conoscenza più approfondita delle dinamiche della club culture, una serata con Sven, Carolone, Loco e Luciano è il trionfo del circuito commerciale più scontato, è la (s)vendita al sistema-Ibiza nel suo aspetto più cinico, efficace ed industriale. Bene. Poi magari ti oppongono Theo Parrish o Underground Resistance come “vera” club culture, come soldati del vero spirito, dello spirito underground: ma un artista o una band che chiede una fee tra cinque e i quindicimila euro fino a che punto può essere considerato “underground”? Gran poco? E gli esempi potrebbero continuare: artisti che per qualcuno sono di nicchia vera, lontani dal carrozzone-Ibiza e dal profilo adamantino, possono costare tra i mille e i duemila euro tutto compreso: bene, quanto underground può essere avere una persona che in una sera che mette i dischi prende quello che un operaio prende in un mese? C’è o non c’è una creazione di plusvalore del lavoro molto ma molto capitalista, in tutto questo?
“La realtà è molto semplice: stai calmo a proclamarti vero paladino dell’underground più duro e puro, perché ci sarà sempre qualcuno più underground di te”
Potremmo continuare, procedendo sempre più in basso e in micro negli esempi, fino ai cachet da poche centinaia di euro. La realtà è molto semplice: stai calmo a proclamarti vero paladino dell’underground più duro e puro, perché ci sarà sempre qualcuno più underground di te. Chiaro? Recepito il messaggio? Al tempo stesso, attenzione!, è profondamente giusto continuare ad interrogarsi su ciò che è commerciale e ciò che underground. Profondamente giusto e necessario. Sarà anche senza soluzione definitiva, ma è una discussione che è un ottimo allenamento per tutti quanti. Ti costringe infatti a riflettere sulle cose, ad indagare sui meccanismi del mercato (quelli attuali, quelli potenziali), sulle evoluzioni del gusto collettivo: allena, allena la mente e l’intelligenza. Tutto questo a patto di non avere l’atteggiamento da ultrà per cui “Undeground = Verità, Mainstream = Venduti Corrotti” oppure quello contrapposto ma assolutamente speculare “Mainstream = Veri Vincenti, Underground = Sfigati Invidiosi”. Lì non alleni un cazzo. Un atteggiamento da ultrà che ha tra l’altro un corollario fastidiosello: comportarsi in questo modo porta a vedere solo i difetti nelle posizioni altrui, mai in quelle proprie.
“E’ fantastico che oggi ci si esalti per i set funk-soul vintage che può fare un Floating Points o un Hunee; è fantastico e fa sorridere, perché invece fino a pochi anni fa questi set erano solo la coperta di Linus di quattro disperati alla Norman Jay che erano rimasti fermi agli anni ’80 e all’acid jazz più polveroso”
Invece, è sano sempre fare non necessariamente autocritica, quella magari no, ma almeno autoanalisi sì. Ed è questa autoanalisi che ci porta a dire che il clubbing per cui noi facciamo il tifo – sì, Soundwall è schierato, lo è da sempre e non lo nasconde, anche se si pone mille domande e non vuole avere preclusioni di nessun tipo – è un clubbing che ormai ha in tutto e per tutto abbracciato un sistema molto commerciale e molto industriale, seppur qua e là su scale economiche un po’ più ragionevoli. E’ facile notare che come la potenza industriale e numerica di Ibiza influenzi il mercato (un caso fra tanti: Solomun; prima di un suo furbo e profondissimo lavoro sul proprio profilo “balearico”, ce lo si filava in gran pochi), idem fa la galassia-Beghain o possono fare gli occhioni di Nina Kraviz o di Apparat, creando l’effetto che Luciano Esse sintetizza con “sempre i soliti nomi”. Bisognerebbe però avere l’onestà mentale di ammettere che anche realtà che noi sentiamo – e abbiamo mille motivi per farlo – più “nostre” creano su scala magari più piccola lo stesso tipo di fenomeno. Dekmantel, per dire. Presso un certo tipo di clubbing e clubber “intelligente”, oggi il marchio di qualità Dekmantel è qualcosa al di sopra di ogni sospetto, una consacrazione che va presa in modo quasi dogmatico: incriticabile. Presso questo stesso tipo di clubbing e clubber “intelligente”, qualche anno succedeva tuttavia lo stesso con la techno berghainiana (che oggi invece viene guardata con superiorità e competimento, come faccenda da troppo tempo statica e buona solo per un pubblico di bocca buona); e qualche anno prima ancora andava bene tutto ciò che era Perlon e minimal techno, mentre oggi si guarda con un po’ di orrore al periodo in cui se non suonavi minimal eri solo un vecchio arnese demodé che non capisce un cazzo. E’ fantastico che oggi ci si esalti per i set funk-soul vintage che può fare un Floating Points o un Hunee; è fantastico e fa sorridere, perché invece fino a pochi anni fa questi set erano solo la coperta di Linus di quattro disperati alla Norman Jay che erano rimasti fermi agli anni ’80 e all’acid jazz più polveroso. Oppure, andando indietro nel tempo, vi ricordate quando solo gli sfigati e i rimastini ascoltavano techno “pesante”? Perché sì, era così. Il sottoscritto andava fisso al piano di mezzo, dell’edificio di Am Wriezener Bahnhof, snobbando il piano di sopra, e veniva guardato con compatimento quando lo raccontavo: “Ma come, ascolti quella monotona ferraglia per disperati autistici“. E’ stato il Berghain ad invertire le mappe della coolness, presso i cultori della club culture più raffinati, insistendo sui propri resident e sulla propria idea di techno fottendosene di quello che dicevano gli “esperti” dell’epoca. E accidenti che cosa positiva è stata, spazzando via tonnellate di minimal esangue. Ora fa comodo dimenticarselo e dire “Che palle con ‘sto Berghain”; ma se uno ha la memoria lunga e un po’ di onestà intellettuale certe cose farebbe meglio ad ammetterle (e ammettersele). Ad esempio, potrebbe anche notare come Masters At Work et similia è tornata ad essere una cosa “figa”, dopo che per anni era la tappezzeria sonora per vecchi papponi coca&champagne superati dal tempo e dal progresso. Eppure la loro musica sempre quella è.
Vi rendete conto di come cambiano le cose? Ma soprattutto: vi rendete conto che anche nel clubbing apparentemente più “da intenditori” ci siano dinamiche per cui alla fine i nomi, per alcune stagioni, diventano sempre “gli stessi”? E una volta che ve ne siete resi conto, avete provato a capire perché? La risposta è semplice: uscire dagli “stessi nomi” è molto rischioso. Siamo tutti abituati nel clubbing, nessuno escluso, a pensare per mode. A pensare per trend. Ad avere l’ossessione di qual è il suono del momento (quello più puro, più autentico, più rappresentativo del proprio “ideale” di club culture, quello che ci fa apparire più intelligenti ed aggiornati). Succede lo stesso anche nell’underground più estremo, spesso e volentieri. Sì: siamo sensibili alle mode. Tutti. Abbiamo imparato a consumare la musica così, generazione dopo generazione, e non riusciamo più a farne a meno. Ma ci sta, e nella club culture ci sta ancora di più: perché se la musica da dancefloor è qualcosa che nasce dai dj e nasce dalla vocazione di coinvolgere la gente al ballo, è normale che nello scegliere cerchi di andare lì dove i desideri del “proprio” pubblico sono più solleticati e soddisfatti. E il pubblico ragiona in modo emotivo. Si innamora. Vuole sentirsi al centro delle attenzioni. Ognuno stando nel proprio contesto di riferimento (per qualcuno Hardwell è Dio, per altri lo è Sandwell District: in comune c’è solo la fonetica, ma l’intensità del sentimento può essere la stessa, e ai sentimenti intensi va portato rispetto a prescindere).
L’effetto concreto? L’effetto concreto è che andare oltre ai “soliti nomi”, lo ripetiamo, è difficile. E’ un rischio. Serio. Il pubblico può non rispondere, all’inizio. Può farlo per gradi, aumentando l’apprezzamento in maniera lenta. Può non farlo e basta, perché gli stai proponendo una inversione di tendenza troppo radicale o troppo poco accattivante, per i suoi gusti. A chi si lamenta con troppo facilità “Eh, ma sono sempre i soliti nomi, i PR e gli art director non capiscono un cazzo, sono schiavi delle agenzie” l’istinto è quello di rispondere subito “Ok, facciamo i nomi che dici tu, hai carta bianca, ma se si perdono soldi è il tuo portafogli a rispondere: ci stai?”. Vedi un po’ come si diraderebbe la lista dei critici e dei contestatori. Ma questo cosa significa, che non bisogna fare nulla? Che bisogna puntare solo al commerciale e al risultato sicuro?
No. No, no, no e poi ancora no. Per un motivo “ideale”: perché la musica e il ballo sono anche cultura e ricerca, non sono solo industria. Per un motivo cinico: perché se cerchi di sfruttare troppo a lungo lo stesso filone, prima o poi il filone si esaurisce e sei nella merda. Per un motivo infine anche di benessere personale: perché varietà e ricerca, sia da organizzatore che da fruitore, danno un piacere quasi “fisico” che può compensare una serata fatta con poca gente attorno (se sei fruitore) o con una perdita nei conti finali (se sei organizzatore). Inoltre – e qua sta il cuore dell’articolo, qui si capisce il perché del titolo – viviamo in una fase molto particolare in cui i nomi contano tantissimo. Chissà, forse troppo. Yes.
Abbiamo lottato per anni per far sì che il dj/producer venisse riconosciuto come artista, che il dj non fosse “quello che mette i dischi” con la stessa dignità del lavapiatti (all’inizio era così!), che la gente imparasse a distinguere tra Claudio Cecchetto e Laurent Garnier, che si tenesse conto – a parole o nei fatti – del percorso artistico, delle origini, delle evoluzioni. Oggi, mediamente, la cultura attorno alla club culture in Italia è molto più alta rispetto a qualche anno fa: un tempo c’era un manipolo di Illuminati (o Fissati…) che tutto sapevano e tutto conoscevano, e un grossissimo del pubblico che si muoveva a caso, senza conoscenze. Oggi non è più così. Sono morte le discoteche-contenitore, hanno saputo resistere solo coloro che in modo più o meno profondo, più o meno onesto sono riusciti ad imbastire un discorso nella programmazione che ruota attorno a ciò che “funziona” nella club culture. E se questo vi pare una cosa triste, un modo per arrendersi mani e piedi all’industria delle agenzie di booking e dei PR modaioli, sappiate che un tempo era più importante avere le cubiste fighe – anzi, era la cosa più importante di tutte. Passi avanti ne sono stati fatti. Proprio grazie al concentrarsi su “sempre gli stessi nomi”, perché almeno questi “nomi” hanno iniziato ad assumere un valore, per quanto falso o gonfiato magari dagli hype di turno: prima non avevano manco quello. E, fidatevi, si stava peggio quando si stava peggio.
Però la verità non è mai una sola (tantomeno la propria), e soprattutto non è mai statica ed immutabile. Questa attenzione sui nomi ha portato ad un gonfiarsi di cachet, ha portato a dare troppo potere alle agenzie che questi nomi rappresentano, ha portato la gente ad essere troppo abituata a considerare una serata “di qualità” solo se ci sono i nomi in questione (i soliti, quelli delle agenzie, eccetera eccetera…). Ne è colpevole Ibiza, come ne è colpevole l’Ultra, come ne è colpevole il Sónar, come ne è colpevole il Dekmantel, come ne è colpevole l’Atonal. Che poi, non è una “colpa”: non lo è più se nei nella club culture diventiamo attori consapevoli, tutti quanti, la smettiamo di ragionare solo per “complottismi” (“Sono i PR e i giochi delle agenzie che rovinano tutto”), la finiamo di contrapporre “undeground” e “mero business” in una lotta in cui deve sopravvivere uno solo dei due. Non lo è più se impariamo ad uscire, come dice Romano Alfieri, dalla “comfort zone”: bisogna riscoprire, organizzatori ma anche pubblico, il gusto delle line up sorprendenti, inaspettate, apparentemente fuori moda. Non lo è più se ritroviamo il giusto equilibrio fra divertimento viscerale e voglia di sentirsi parte di un discorso culturale in cui ostentare la propria intelligenza e le proprie conoscenze: gli eccessi sia in un caso che nell’altro sono sbagliati, perché in un caso allora vanno bene solo schiuma-party con un dj a caso (o con Paris Hilton, che è la stessa cosa), nell’altro si droga la parte più affaristica del mercato dei dj e delle agenzie perché quando c’è richiesta, è inevitabile strutturarsi in modo mercantile, surfando sulle leggi della domande e dell’offerta, questo a tutti i livelli.
“Siamo diventati talmente raffinati e cervellotici (nei nostri gusti, nel nostro voler essere informati…) che all’improvviso la forza bruta di alcuni fenomeni francamente “ignoranti” ci appare molto affascinante, e le diamo uno spessore musicale e culturale che in realtà non ha. In realtà qualche volta ci divertiamo un sacco con la Dark Polo Gang perché l’ennesimo set di Motor City Drum Ensemble o di Dixon ogni tanto inizia a venirci a noia, non sempre le ciambelle vengono col buco o non sempre sono buone come la prima volta”
Abbiamo vinto, in questi anni. Ora molta più gente rispetto a dieci, quindici anni fa sa districarsi nella differenza tra Transmat, Perlon, Hessle Audio, Spinnin’ Records. Molta di più. Dobbiamo essere contenti. Ma dobbiamo anche renderci conto che se troppa gente si balocca con l’importanza di essere l’artista X o l’etichetta Y secondo i canoni più attuali e più raffinati del gusto contemporaneo, perdiamo di vista il divertimento, la sorpresa, il detournement che all’improvviso ci fa scoprire nuovi colori e nuove emozioni. Lo perdiamo a tal punto che, per recuperare, incominciamo a fare dotte disquisizioni su Gigi Dag o Dark Polo Gang, che ci sembrano all’improvviso dei fenomeni potentissimi e da trattare senza snobismo. Perché siamo diventati talmente raffinati e cervellotici (nei nostri gusti, nel nostro voler essere informati…) che all’improvviso la forza bruta di alcuni fenomeni francamente “ignoranti” ci appare molto affascinante, e le diamo uno spessore musicale e culturale che in realtà non ha. In realtà qualche volta ci divertiamo un sacco con la Dark Polo Gang perché l’ennesimo set di Motor City Drum Ensemble o di Dixon ogni tanto inizia a venirci a noia, non sempre le ciambelle vengono col buco o non sempre sono buone come la prima volta; solo che non lo possiamo dire. Così come non possiamo dire che Underground Resistance spesso cadono in manierismi fusion e in approssimazioni tecniche, o che Aphex sta raschiando i fondi di magazzino da un decennio e passa. Perché a dire tutto questo, rischiamo di passare per quelli che “non rispettano la cultura”: dando così ad alcune realtà uno status di infallibilità che invece non andrebbe dato a nessuno, nemmeno a chi davvero tanto ha fatto per alzare il livello, per volare al di là delle commercialate e delle paraculate.
Abbiamo vinto. Ma stiamo attenti agli effetti velenosi del cullarsi troppo sulla nostra vittoria. E, al tempo stesso, evitiamo i complottismi, evitiamo i manicheismi: ci fanno stare nella peggiore e più velenosa delle nostre “comfort zone”.