È importante dare il giusto peso alle cose, ne siamo più che convinti, ma non pensiamo di esagerare quando diciamo che Andrea Venerus è un poeta in grado di solleticare, e quindi tinteggiare con parole e musica, il nostro subconscio attraverso il suo bagaglio esperienziale quanto mai ricco e variopinto. Fiero rappresentante della città di Milano, è cantante, polistrumentista e produttore sia per se che per altri personaggi della scena rap. Con un passato da ramingo musicale tra Milano, Roma e Londra, è tornato nella città meneghina per dire la sua, ma non a voce alta, piuttosto col falsetto, talentuosissima arma di punta della sua fantastica cifra stilistica. Ha conquistato pubblico e critica con “A Che Punto È La Notte” e “Love Anthem”, entrambi usciti per l’eccellente Asian Fake. Dentro i lavori di Venerus c’è la sua anima insieme ai suoi sogni. Tutto descritto con musica e parole sue, perché poeti non si nasce per caso.
In attesa di ascoltarlo live a FRAC Festival tra qualche giorno – qui potete acquistare le prevendite – è un piacere averlo sulle nostre pagine con una bellissima intervista.
Ascoltando la tua musica c’è tantissimo jazz, hip-hop ed elettronica. Questi generi provengono da dei tuoi ascolti precedenti o fanno parte del tuo essere nomade che ti ha portato ad assimilare tutto?
All’inizio avevo un gruppo in Inghilterra, ed essendo in tanti le sonorità dipendevano dal nostro punto d’incontro. Poi, quando ho lasciato il gruppo e mi sono messo a produrre da solo, io che ho sempre ascoltato un sacco di jazz, elettronica e rap, mi sono trovato a chiedermi quale fosse la mia musica. È stato un percorso molto omogeneo e in questi generi, che continuano ad influenzarmi, trovo sempre un fil rouge in cui mi riconosco. È tutto molto spontaneo, quindi continuando ad ascoltare di tutto è normale che i miei ascolti si riflettono tantissimo nella scrittura.
Infatti la maggior parte degli artisti citano come loro primi ascolti quelli tra le mura di casa grazie ai parenti che gli hanno fatto ascoltare la loro collezione di dischi. Quali sono stati i tuoi primissimi ascolti musicali e il tuo primo approccio in generale con la musica?
Specialmente dalla parte di mio padre, che è sempre stato molto appassionato e un grande collezionista di dischi: sono cresciuto con la sua impronta musicale ascoltando un sacco di musica americana e inglese. Un sacco di Rolling Stones, Miles Davis, musica jazz e blues. Che poi sono cose che ti influenzano quando sei piccolissimo e poi quando sei più grande, e hai finito la tua fase di ribellione, rispetti quello che ti è stato dato. Il fatto che adesso faccio musica in italiano ma comunque io nella mia vita non ho mai ascoltato musica italiana, perché a casa mia non si ascoltavano Battisti o Dalla, in parte mi dispiace perché ho ascoltato tante altre cose che mi hanno dato un’impronta di un certo tipo.
Questi ascolti, appunto non essendo italiani, che musica estera era?
Un sacco di rhythm and blues, un sacco di soul, musica anni ’60 e ’70. Bob Dylan, Rolling Stones, Paul Simon, i Beatles. Un sacco di black music e tanto jazz. Per assurdo mio padre ha ascoltato tanto jazz e io mi sono affezionato al jazz così a caso, perché c’era un disco di Charles Mingus che girava per casa quando avevo quattordici anni e mi ha rapito di brutto. “Ah Um” di Mingus è un disco incredibile che suona come una festa. Senti tutto il rumore di sottofondo con la gente che parla e fa casino e questa roba mi ha sempre rapito tantissimo.
Mi ha incuriosito la piccola bio che hai nella tua pagina Facebook, quindi ti voglio chiedere cosa ci sono in questi spazi della mente dal 1992.
Guarda, sinceramente il fatto che a livello di immaginario il tipo di atmosfere che cerco di ricreare con la musica sono cose in cui mi ritrovo nei sogni. Ho un rapporto molto intenso con essi, mi sveglio spesso che mi ricordo nel dettaglio tutto quello che ho sognato. Sono atmosfere che racchiudono tantissimo la mia emotività. Nella mia musica cerco di ricreare a mio modo e sempre in maniera più precisa quel tipo di sensazioni che ho già e sento addosso. Non mi piace una cosa inventata, è una sensibilità di un certo tipo, molto delicata. Il mio tentativo è quello di provare ad avvicinarsi a quella roba lì piuttosto che inventarsi qualcosa da zero.
Quindi non sbaglio a dire che la tua musica è una trasposizione concreta dei tuoi sogni.
È un tentativo di quella roba lì. Poi chiaramente tutto il mondo dei sogni fa parte di una parte del nostro intelletto che non possiamo raggiungere lucidamente da svegli e quindi è un po’ come un ritratto. C’è la realtà, e il ritratto è un tuo modo di avvicinarti a quella roba lì anche se ovviamente risulta qualcosa di diverso.
La notte portatrice di sogni è un elemento che ricorre spesso e volentieri nei testi delle tue canzoni. Poco fa mi avevi raccontato questo aspetto a grandi linee e adesso se mi permetti voglio andare in profondità, che rapporto hai con la notte?
Quando sono andato a studiare in Inghilterra ho avuto le mie prime esperienze di libertà di vita, ho incominciato ad esplorare parti di me, i miei interessi, i miei divertimenti, vizi e sfoghi. Essendo una persona curiosa sono sempre stato portato a voler vedere cosa c’era dopo, a cercare sempre la situazione successiva. E quindi negli ultimi anni è finita che ero sempre in giro. Sempre da un posto all’altro, sempre a cercare la prossima situazione, feste, concerti, giri. E quindi mi sono trovato sempre di più ad essere in giro di notte, a diventare una persona essenzialmente notturna più che diurna.
Nel tuo caso la notte ti rappresenta tantissimo in quanto la tua musica ha una verve spiccatamente extraterrestre, notturna e passionale. E rispecchia te come persona.
La cosa che sto cominciando a vedere adesso, e che mi piace tanto, è che attraverso il fare musica, dove ovviamente investo tantissimo tempo ed energia, mi sto rendendo conto che sto cominciando a raccontare di me e non soltanto del fatto che voglio fare musica. Quindi sicuramente quello che faccio mi sta rappresentando molto, nel senso che è quello spazio creativo dove non ho nessun tipo di pregiudizio, nessun tipo di preoccupazione nel potermi raccontare ed essere come protetto. Mi riconosco molto nelle mie canzoni e in quello che faccio perché non posso dirmi le bugie da solo e quindi mi rappresento sempre di più. E inoltre mi aiuta tanto a scoprire altre parti di me e a crescere.
Come hai sviluppato il progetto Venerus nella sua totalità?
Intanto ci tengo a dire che Venerus è il mio cognome. La cosa interessante è che viene dal Friuli, perché mio padre viene da lì, e che è sempre suonato alieno in qualsiasi contesto. Da quando son piccolo mi sono sempre trovato addosso questa roba che mi portavo un cognome che era sempre un po’ strano. Col crescere negli anni mi sono reso conto, però, che chiamando il mio progetto con questo nome sarei stato “io”, ma al tempo stesso sarei suonato “lontano” e appunto “strano”; così mi sono detto che avrei fatto la mia musica e che l’avrei dovuta chiamare così, perché è come sono sempre stato. Ho voluto metterci la faccia e il nome.
Quali sono quei riferimenti musicali che stanno alla base del progetto?
Col fatto che il progetto rappresenta me che cresco nella vita facendo delle esperienze, la ricerca musicale non può che evolvere tanto. In un periodo posso ascoltare solo rap, poi in un altro solo house e techno. La parte della musica suonata viene da un botto di roba house, jazz. La densità dei suoni viene da questi generi molto dance e molto notturni. Mentre il cantato viene più da robe soul. Mi piace molto la roba degli anni ’60 come la Motown, Donny Hathaway e Chet Baker.
Invece il passaggio dal cantato in inglese a quello italiano ti ha destabilizzato o è stato molto facile?
Il mio primo pezzo in italiano l’ho fatto un po’ a caso, nel senso che il ragazzo con cui vivevo a Londra mi chiese di mandargli qualcosa. Mi ricordo che stavo girando in lungo e in largo per Roma e ho iniziato a cantargli su WhatsApp delle robe in italiano. Una settimana dopo si è fatto risentire dicendomi che gli aveva messo sotto una beat. Lì per lì mi ero preoccupato perché mi ero dimenticato della cosa. Tornato a casa ho ascoltato la versione embrionale di “Non Ti Conosco”, il mio primo singolo, che mi piacque tantissimo. Subito dopo ho avuto questo primo spartiacque davanti a me perché avevo undici pezzi in inglese e uno in italiano, e non sapevo che direzione prendere. Poi ho avuto una brutta esperienza all’aeroporto di Los Angeles che mi ha aperto gli occhi. Ho mandato a quel paese le canzoni inglese e a non leccare il culo a questa cultura. Sono tornato in Italia e con i miei amici abbiamo fatto di getto altre tre o quattro canzoni in italiano che ho deciso di fare uscire. Avevo trovato il tassello mancante! Dopo una ricerca di anni per trovare il suono che volevo e la produzione che volevo, mi mancava cantare nella mia lingua!
Col fatto che sei stato a Milano, poi Londra e adesso di nuovo Milano sei uno che ha sempre girato abbastanza. Questa pit-stop a Milano pensi che sia temporaneo?
Io sono cresciuto a Milano, poi sono stato in Inghilterra cinque anni. Poi ho fatto un’esperienza a Roma. Da quando me ne sono andato via ho sempre rimandato il mio ritorno a Milano perché non volevo chiudere il cerchio. Ho sempre sentito molto forte questa idea di partire per un percorso e lasciarmi guidare senza mettermi dei pali. E non sono voluto tornare a Milano fino a quando non fosse evidente che dovessi farlo. Mi sono sempre mosso molto a sentimento, nel senso che quando sono andato da Roma a Londra lì avevo trovato qualcosa in quel momento di cui avevo bisogno. Quando poi sono tornato da Londra a Roma sentivo la necessità di stare dall’altra parte. Così come quando l’anno scorso ho iniziato a lavorare con Mace a Milano sentivo che per la prima volta potevo tornare dove ero cresciuto con qualcosa di mio e di assolutamente personale. Quasi da straniero in casa, no? Adesso questa roba del girare mi è rimasta di sopra e credo che mi rimarrà per sempre, però da un certo punto di vista adesso mi piace l’idea di stare nel luogo da dove vengo. Potrei vivere in mille altri posti ma essere un’artista di Milano, nato in questa città, per me ha tanto valore. L’idea di essere un’artista della mia città mi affascina e mi ha portato ad essere rilevante nel mio contesto.
A Milano hai trovato Mace e l’Asian Fake, l’etichetta che ha lanciato Coma Cose, Ketama126 e adesso tu. Come sono nati questi due incontri?
I ragazzi di Asian Fake li ho conosciuti a Roma tramite Frenetik&Orang3. E poi Mace l’ho conosciuto sempre a Roma quando è andato a trovare Frenetik&Orang3 in studio. Ci siamo conosciuti in un contesto un po’ strano perché quel giorno io ero lì completamente alienato dalla sera prima e con indosso gli occhiali da sole. Quella stessa sera lui avrebbe suonato in un locale di Roma ma io non sono riuscito a sentirlo e questo mi è molto dispiaciuto. Quindi gli ho scritto il giorno dopo e per scusarmi l’ho portato a pranzo fuori. Da lì abbiamo iniziato a parlare e ci siamo riconosciuti in tantissime cose, anche in termini di ascolti e di personalità. Letteralmente un mese dopo sono tornato a Milano e sono andato direttamente dalla stazione al suo studio. Diciamo che questo episodio è stato uno dei motivi principali per cui sono tornato a Milano, perché ogni volta che passavo da Milano mi trovavo nel suo studio per fare qualcosa o a lavorare su qualcosa di nostro insieme o a dargli una mano sulle sue cose. Dopo l’estate siamo diventati ufficialmente partner su tutti i lavori che aveva da fare.
E qual è il tuo rapporto con la scena rap?
Da un certo punto di vista la cosa un po’ limitante è che è molto alfa, molto testosteronica. Ed è giusto così, perché per entrare nella scena devi spaccare il culo agli altri. Ma per quanto mi riguarda io sono molto più tranquillo, non mi interessano queste cose. Poi col fatto che con Mace produciamo un sacco di rap sono sempre in quel mondo lì. Sono diventato super amico di Gemitaiz, di Izi e tante altre persone. Quindi per adesso sto lì anche se mi sento un pesce fuor d’acqua.
Col fatto che stai crescendo come artista come sta andando la tua estate in giro per i festival?
Questo è il mio primo tour ufficiale come Venerus e con la band e devo dirti che è veramente impressionante la crescita a cui sto assistendo. Pochi giorni fa abbiamo suonato a Roma, non so spiegarmi cosa è scattato ma è successo qualcosa. Non mi aspettavo che ben quattrocento persone sapessero tutte le mie canzoni, quindi ti chiedi come sia potuto accadere questa cosa. C’è questo scambio di energia fortissimo con il mio pubblico che è la roba che mi piace assolutamente più di tutte le altre.
Ultima domanda ma necessaria: altri progetti futuri?
Dopo questo EP (“Love Anthem”, ndr) ho avuto un periodo di confusione mentale, vuoi perché ho suonato tanto in giro e quindi avevo tanti input diversi dal solito. Adesso sto iniziando a mettere di lato del materiale per quello che sarà il mio disco ufficiale di debutto che vedrà la luce tra un po’ di tempo. Senza mettermi fretta sto imbastendo abbastanza bene tanto materiale scritto e tantissima musica completata in modo da sentirmi libero di mettergli quello che voglio senza problemi. Adesso che il progetto sta crescendo e comunque vedo che la gente sa quello che sto facendo voglio esercitare il diritto alla mia libertà e fare qualcosa di non canonico. Voglio fare qualcosa che mi possa esporre di brutto, mi piacciono questo tipo di sensazioni e rischiare! Magari nel nuovo album dopo due pezzi soul ne metterò uno techno. Ma non per rompere il cazzo e fare il diverso, ma perché se mi piace voglio che sia così. Voglio sentirmi libero. L’esperienza di lavorare con un’etichetta indipendente è una posizione che va mantenuta e continuamente esercitata in quanto artista di questa etichetta.