“Sembra di essere tornati ai primi anni, ai primi anni del Forum…”: l’hanno pronunciata in tanti, tantissimi questa frase, fra quelli che conosciamo che erano al Primavera Sound di quest’anno e che hanno abbastanza memoria storica per quanto riguarda il festival catalano e la sua crescita nel tempo. Crescita che oggi diamo per scontata, ma che in realtà scontata non è per nulla visto che nasce tutto come raduno di appassionati di indie rock per qualche migliaio di persone, in una venue ridotta come il Poble Espanyol: festival così ce ne sono a centinaia nel mondo e ne nascono di nuovi ogni giorno, anche in Italia, ma il Primavera è diventato il Primavera, gli altri no.
C’eravamo quando ci fu la prima edizione negli spazi giganteschi del Parc del Forum (ecco: quando, quando, quando in Italia riusciremo ad avere una architettura urbana di questa qualità… In Italia già ci meravigliamo se a Milano rifanno – male, con banalità agghiacciante – una piazzola attorno ai Navigli), e quel salto di qualità fu gestito benissimo dagli organizzatori da un lato ma anche apprezzato dal pubblico dall’altro. È solo l’anno scorso, e solo nella prima giornata, che era successo il casino, la prima, vera, pesante crisi di sovradimensionamento. D’altro canto era la prima edizione post Covid: c’era l’urgenza di rientrare coi soldi, di accontentare chi aveva comprato il biglietto sia per il 2020 che per il 2021 e non perdere comunque gli acquirenti 2022, è stato sottovalutato tutto questo (in primis a livello di gestione di personale e flussi di pubblico), ma con grandissima professionalità tutto è stato risolto nell’arco di 24 ore, con tanto di pubbliche scuse (doppio merito, quindi), e nella seconda giornata del festival tutto era tornato gestibile, nonostante l’afflusso record.
L’afflusso record di pubblico quest’anno non c’è stato. La situazione si è “normalizzata”. Per qualche motivo – ed è un punto centrale, capire quali siano questi motivi – il Primavera che pareva lanciato verso una “tomorrowlandizzazione” totale (aka biglietti bruciati in pochi minuti dall’inizio della prevendita, ospiti in arrivo dai quattro angoli del globo) si è fermato un attimo prima del traguardo. Niente sold out. Niente folle oceaniche. Niente gente proveniente palesemente dai quattro angoli del globo (molti italiani e molti inglesi, quello sì: coi nostri connazionali che sono diventati la colonia estera più numerosa al festival, quasi una presenza su dieci arriva da casa nostra dati ufficiali alla mano). Nemmeno troppo “spirito Coachella”: ovvero gente che è presente al festival non perché appassionata di musica ma perché appassionata di eventi, e quindi spende più tempo a farsi i selfie in posa che a studiare la line up per capire a quale palco dirigersi. L’abbiamo visto accadere, sì, ma pochissime volte. E chi lo faceva era chiaramente fuori contesto, venendo squadrato con un po’ di sorridente compatimento da chi passava attorno (era più divertente fermarsi per dare una pacca sulla spalla a Four Tet, che se la passeggiava serafico in mezzo al festival, come un pagante qualunque).
…la temevamo, la “coachellizzazione” del Primavera. Tanto quanto la sua “tomorrowlandizzazione”. Se la seconda è stata in parte sterilizzata dalla scelta del festival di puntare forte sul mercato sudamericano (ci sarà infatti un Primavera Sound in Brasile, uno in Colombia, uno in Argentina e uno in Paraguay) e dal “raddoppio” speculare a Madrid una settimana dopo (oltre 90.000 presenze in due giorni, il terzo annullato per maltempo), e per altro parlando con una persona alta in grado nello staff si parla già parecchio di uno sbarco pure in Italia (onestamente, nella nostra conversazione il nostro consiglio è stato “No. Non fatelo”), la prima invece è stata rigettata dallo zoccolo duro dei frequentatori storici del festival. Che ha “settato il tono” per tutti i presenti, anche per i neofiti quindi. È vero che i Blur sono invecchiati, che i Depeche Mode piacciono ai cinquantenni, che gli Shellac sono per i fissati, che i New Order sono dei vecchi scorreggioni (detto con affetto, eh, ma tanto belle ed immortali sono le loro canzoni altrettanto Bernie arranca sempre di più e Gillian è la caricatura di se stessa, che già di base era una caricatura di suo), è vero che i Pet Shop Boys sono karaoke per i viveur coi capelli grigi; ma la portata di storia e di “senso” che si portano dietro è ancora fortissima (e in qualche caso, come nei Depeche Mode, dal vivo spaccano ancora tantissimo, anzi, sono più in forma adesso che vent’anni fa).
C’è chi vorrebbe un festival solo di novità, o quasi: di hyper pop, di artisti gender fluid (perché oggi il gender pare importante per giudicare o descrivere un musicista: mah…), di pop coreano o giapponese o africano perché bisogna uscire dalla routine anglosassone (anche se si tratta troppo spesso di scenette in playback da GREST estivo alla Parrocchia di San Bartolomeo), di Rosalía perché è contemporanea e brava e cazzuta (lo è) e di Kendrick perché l’hip hop è il nuovo pop e un po’ anche il nuovo indie (nel primo caso sì, nel secondo caso mah insomma).
C’è insomma una corrente di pensiero “nuovista” che reputa superato o irrilevante quasi tutto ciò che è stato e che ha formato il DNA di un festival come il Primavera, proprio perché è di per sé il passato, perché è figlio di sensibilità maturate nei decenni precedenti. Ora: il Primavera – che è portato avanti dal giorno uno da persone che amano la musica davvero – non è e probabilmente mai sarà un festival revivalista e conservatore. Nella scelta della line up, da sempre si avverte infatti una grande curiosità e una volontà di esplorare i mille rivoli della “musica leggera” (così la chiama la SIAE, anche quando si fa metal satanista…) contemporanea, ed intendiamo sia stilisticamente che geograficamente. Al tempo stesso, non è un caso che il suo gruppo “manifesto”, quello che non deve mancare MAI nella line up, siano gli Shellac. Non propriamente una band composta da neri, o asiatici, o non-cis, nonché una band che se gli nomini il rap da classifica o gli act da Superbowl e forse pure l’hyper pop tendenzialmente ti risponde con un rutto.
C’è insomma una corrente di pensiero “nuovista” che reputa superato o irrilevante quasi tutto ciò che è stato e che ha formato il DNA di un festival come il Primavera, proprio perché è di per sé il passato, perché è figlio di sensibilità maturate nei decenni precedenti
Attenzione, non è questione di vecchio vs. nuovo, facendo il tifo spudoratamente – e ormai pateticamente – per il vecchio. No, accidenti. Il punto è che inseguendo solo e soltanto il nuovo più scintillante e cool e “nuovo” nella narrazione, cercando solo il suono più hype fra gli hipster, il rischio concreto, concretissimo è quello di una gentrificazione musicale ed attitudinale del festival. Onestamente: sarebbe una situazione del cazzo. Una piccola catastrofe. E sarebbe il trionfo finale del denaro, solo travestito da arte e buoni sentimenti: esattamente come ogni gentrificazione: citofonare Berlino per chiarimenti.
In molti lo vorrebbero, tutto ciò. Anzi: in molti hanno proprio scommesso sul fatto che questo accada. Che il Primavera cioè diventi il Coachella europeo. Solo così si spiega infatti la quantità smodata di sponsor ovunque: sponsor che danno il naming sul palco, che sbarcano al festival montando tende, tendoni, capannoni, pescioni, balconi, spendendo così l’iradiddio anche in strutture; sponsor che si agitano e sgomitano per farsi vedere nella comunicazione, inventandosi concorsi, format e forme di engagement. Il punto è che tutti questi brand, come effettivamente fanno ed è giusto che facciano i brand, in un festival musicale quando vedono della gente non vedono degli appassionati di musica (che lo siano o meno, è per loro per certi versi irrilevante), ma vedono essenzialmente dei consumatori da sedurre: dei consumatori di cui attirare l’attenzione (contando sul fatto che sono già sovraeccitati e ricettivi, in quanto presenti ad un festival così à la page a livello mondiale). Ecco qua un esempio di marchio che torreggia fiero, dalla sua balconata dove sono intruppati alcuni suoi invitati VIP o finto VIP:
Non ne facciamo una critica agli organizzatori del Primavera: se fuori dalla tua porta hai la fila di marchi pronti a mettersi in ginocchio da te con in un mano un assegno dalla cifra smodata, perché diavolo dovresti dire di no? Non li hai cercati tu. Sono loro che stanno venendo da te. Vengono da te perché nel manuale del marketing manager degli ultimi dieci anni c’è scritto che se non investi nella musica hai perso il treno del momento; e quindi tutti, come pecore, investono nella musica facendosi tagliafuori l’un l’altro a colpi di rilanci e offerte difficili da rifiutare (…se i cachet delle band e dei dj è schizzato così in alto, è anche e soprattutto per questo: sappiatelo). D’altro canto a Coachella dal punto di vista del marketing funziona – Coachella approva a ringrazia, ricordiamoci che è un festival che accredita d’ufficio gli influencer se hanno un numero x di follower: ecco perché lo vedete sempre pieno di stronzi e stronze che passano il tempo a fotografarsi e a taggare marchi – e allora se a Coachella funziona, beh, devi correre a creare un “nuovo Coachella”. Cosa di meglio del Primavera Sound? Cosa meglio di un festival che nasce indie e di nicchia sì ma, ben amministrato e con la giusta “fame” di crescita, diventa un gigante nei numeri?
Tutti questi marchi in giro avranno quest’anno rovinato un po’ l’atmosfera (poco, ma un po’ sì), però ci piace pensare che rendano comunque sostenibile un festival dove a fronte di una line up sempre di qualità ed immensità quest’anno non c’è stata la corsa al biglietto dell’anno prima. Chiaro, parliamo sempre di numeri immensi (dichiarati 193.000 spettatori nella tre giorni del Forum: dato forse un po’ gonfiato, ma nemmeno più di tanto), però non ci sono stati sold out in pochi minuti, il giovedì addirittura non c’era mai una fila al bar o una congestione nei punti “sensibili” di passaggio folla, si stava insomma larghi larghi. Considerando che nella moderna industria dei live le economie sono diventate talmente sofisticate e strozzine che nove volte su dieci se non fai sold out vai già in perdita, ringraziamo i signori sponsor e i loro portafogli avidi di presenzialismo: ci hanno permesso di vivere una esperienza rilassata. Grazie Cupra, grazie Amazon Music, grazie Campari, grazie Pull&Bear, grazie Stone Island che porti in giro il marchio C2C, grazie Banco Santander (…e l’elenco potrebbe continuare per tre righe, anche escludendo gli “storici” tipo l’Estrella Damm, birra da sempre a fianco al festival – tanto da averne aiutato in maniera decisiva la crescita, sarà anche “Created in Barcelona” ma ormai è un gigante mondiale).
C’è un’unica cosa su cui il Primavera deve riflettere, ma non solo il Primavera: nella parte Pro, quella degli addetti ai lavori e dei panel e dei workshop, le narrazioni e le discussioni più interessanti sono venute fuori tutte dalla sfera della club culture; al tempo stesso, il set più sorprendente e chiacchierato del festival vero e proprio è stato quello di Fred Again. Non per forza il migliore, eh; ma di sicuro quello che ha sorpreso di più e che è stato chiacchierato di più – e lasciate perdere noi soliti stronzi che mormoravamo “Ma queste cose le facevano i Coldcut venticinque anni fa…”. È come se il rock (nel senso lato del termine, che va dal pop all’indie rumorista destrutturato) facesse fatica ormai a tirare fuori da un lato sorprese, dall’altro delle storie umane e sociali convincenti. Siamo ancora fermi alla saga della New York “Meet Me In The Bathroom” (peraltro, una scena dove il clubbing ha fatto da scintilla e sparigliatore…) o ai mille epigoni del post punk, ma il post punk è nato quarant’anni fa e la New York di Strokes ed LCD più di vent’anni fa. Per dire, momento bellissimo del Pro è stato quando si è parlato delle proteste scaturite a Tbilisi dalla chiusura del Bassiani: la chiusura di una venue rock, o la censura di una band pop, riuscirebbe oggi a scatenare le stesse forze e gli stessi impulsi? Vent’anni fa, sì. Ma ripetiamo: oggi?
Sia come sia, al Primavera Sound si sta ancora bene. In questo 2023 siamo stati benissimo. E il mix fra quarantenni con le spillette (troppo vecchi ormai per essere hipster) e ventenni che sono lì per Rosalía, funziona. Finché si dà pari dignità ed amore ad entrambi, funziona e funzionerà.
PS. Festival italiani grandi e piccoli, ma soprattutto i grandi, imparate dal Primavera a gestire l’area food: un’autentica eccellenza del festival, cibi mai banali, a prezzi quasi umani, di qualità ottima, con un sacco di chicche inaspettate: si può fare.
(ha collaborato Katia Gregori: foto di Christian Bertrand)