Tra i producer italiani, da tempo Godblesscomputers è uno dei più quotati. Non a caso. Perché è uno di quelli più in grado di parlare a mondi diversi, di avere un seguito trasversale. Quello capace di portare elettronica ed hip hop strumentale ad un pubblico indie, quello capace di entrare negli ascolti casalinghi più rilassati di chi è abituato a passare ore e ore notturne nei club. Partito da zero o quasi, nell’arco di qualche anno e di due album si è guadagnato un profilo e un seguito di una solidità che pochi possono vantare – pochissimi anzi, se guardiamo solo al campo di chi fa beatmaking. Di suo, Lorenzo Nada è molto diretto come persona. Molto analitico, non si fa mai problemi ad esprimere la sua opinione. Ci sono molte cose interessanti, dentro questa lunga chiacchierata che ci siamo fatti pochi giorni prima dell’uscita di “Solchi”, il suo terzo lavoro sulla lunga distanza.
Con un disco in uscita e un tour da preparare immagino che la tua estate sia stata una gran abbronzatura da monitor…
Più o meno sì! Non ho fatto una vera e propria vacanza. Magari qualche gita fuori porta, qualche nuotata in piscina allo Sterlino, a Bologna. L’unico vero viaggio è stato andare al Primavera Sound di Porto, ancora a giugno.
In effetti stavolta, almeno per preparare i live, c’era anche più lavoro del solito: vai in giro non più da solo, devi incorporare due strumentisti nell’architettura sonora del tuo concerto…
Infatti l’occupazione principale di questo periodo estivo è stata stare in saletta a fare prove coi ragazzi. Ma non mi lamento assolutamente: stare tanto tempo assieme è stata proprio una bella esperienza. Bella, e per me anche nuova, inedita.
Quanto è difficile combinare analogico e digitale?
Sicuramente, se restiamo nel mero territorio della musica elettronica e ci riferiamo alla strumentazione, unire analogico e digitale è abbastanza semplice. E’ qualcosa che ho sempre fatto.
Mentre invece unire macchine ed esseri umani…
…quello è sicuramente più difficile, sì. Però guarda, se trovi le persone giuste, con la mentalità giusta per entrare in quello che fai, è una cosa bellissima. Per quel che mi riguarda, credo anzi che così i risultati siano anche migliori. Perché ti dirò, riascoltare alcuni miei vecchi pezzi riarrangiati ora è stato proprio emozionante, sinceramente emozionante. Il punto è che i due musicisti che mi accompagnano in tour, Federico Mazzolo e Giulio Abatangelo, sono anche dei producer. Federico, in arte Ioshi, produce le sue cose nel giro dub, è legato al mondo di Paolo Baldini, ha suonato molto coi Mellow Mood; Giulio ha un background legato al jazz ma adora quando il jazz incontra l’elettronica, quel mondo che va da Flying Lotus a Shigeto, e pure lui fa il producer nel progetto Klune. Avere qualcuno che sì suona con uno strumento ma conosce bene le dinamiche della musica fatta con le macchine fa la differenza, rende tutto molto più semplice. Rende più semplice anche il lavorare a distanza. Perché siamo delocalizzati: chi in Veneto, chi in Friuli, io a Bologna, il nostro fonico a Firenze. Devi avere un certo tipo di competenze tecniche per scambiarti le idee e lavorarci sopra stando così a distanza.
Non è mai semplice, o non è mai stata semplice, la comunicazione tra il mondo di chi fa musica con le macchine e chi invece con gli strumenti. Mi ricordo ad esempio che a Sanremo gli orchestrali si lamentavano che spesso gli arrivavano delle partiture con note che erano impossibili da riprodurre con uno strumento vero… sono proprio due alfabeti tecnicamente diversi, spesso. Tu hai avuto qualche esempio, qualche punto di riferimento, nel momento in cui hai deciso di dare vita questa formazione macchine + strumenti?
No, sono andato avanti per la mia strada. Sono ben cosciente che ci sono tanti progetti che portano in giro musicisti e producer, non sto facendo nulla di nuova, ma non posso dire di essermi ispirato a qualcosa o qualcuno in particolare – pur avendo visto tante cose con questa formula in passato che mi sono piaciute parecchio. Però davvero, sono andato avanti per la mia strada. Abbiamo lavorato molto sul suono: perché è vero, non è così semplice ed immediato combinare queste due sfere, sono di per sé diverse, in primis dal punto di vista della resa sonora. Per farti capire, molto lavoro è stato fatto sul come amplificare il basso: da un lato volevamo che il suo suono si avvicinasse il più possibile a un sub bass, dall’altro però volevamo salvare il sapore “analogico”, far sentire anche la corda dello strumento. Idem per quanto riguarda la batteria: c’è quella acustica, ci sono i pad, bisogna trovare il giusto equilibrio fra queste due soluzioni. E’ stato un lavoro lungo. Ma credo che il risultato – almeno a mia opinione, e a quella di chi suona assieme a me e di chi ci ha sentito finora provare – abbia portato tutto a un livello superiore.
Che poi in effetti il materiale di questo tuo nuovo album, “Solchi”, mi pare che si presti abbastanza bene ad essere tradotto live.
Certo. L’idea di presentarlo dal vivo con una vera e propria band nasce proprio da questo. Con “Solchi”, mi sono avvicinato molto di più a un certo tipo di musica black: nu soul, hip hop… E nel farlo molte cose sono state effettivamente suonate da strumenti. Questo prima ancora di decidere che sì, volevo iniziare a fare dei live con una band vera e propria. Perché prima di tutto, l’idea prima di mettermi a lavorare a questo disco era di avvicinarsi a qualcosa di più organico. E’ stata una direzione quasi inconscia, non una scelta meditata: è che in questi ultimi anni non ho in realtà ascoltato tantissima elettronica, sono invece andato molto a ritroso, ho riscoperto parecchi dischi. Per certi versi puoi prendere “Solchi” come un omaggio a un tipo di suono che mi ha molto influenzato: l’hip hop degli anni ’90, il soul, il jazz, l’r’n’b, ovviamente tutti riportati in chiave mia, tutti “tradotti” col mio modo di comporre, col mio suono.
Ecco, sì, ascoltando il disco mi pare che il “marchio Godblesscomputers” sia davvero qualcosa di molto evidente. E’ una scelta precisa, qualcosa su cui hai anche lavorato parecchio sopra per arrivarci?
Da un lato ti posso dire che mi è venuto assolutamente spontaneo. Dall’altro, ti posso dire che io trovo sia una cosa tutto sommato positiva quella di avere uno stile che sia, tra virgolette, riconoscibile. Un certo modo di impostare le armonie, un certo modo di tagliare i sample, un certo modo di programmare le batterie… Non è che mi ponga molti vincoli mentre lo faccio, tipo che devo rientrare in un certo tipo di parametri eccetera eccetera, è che proprio mi viene spontaneo. Scrivo musica da un po’ di tempo: ho capito cosa mi piace, come impostare i suoni, come impostare i brani. Ovviamente mi piace ogni tanto andare in territori diversi, sperimentare alcune soluzioni particolari a livello armonico ad esempio, ma penso che rientrare in uno stile che sia in qualche modo riconoscibile non è male. Penso che sia importante. Poi non so, qualcuno troverà questa scelta prevedibile, noiosa; non lo so, so solo che io in questo disco credo molto. L’ho fatto sentire alle persone di cui mi fido, gli amici più stretti: tutti mi hanno detto che si sente che è un disco mio, ma che al contempo si avverte anche il desiderio di esplorare direzioni diverse, in molte tracce.
E’ un disco che trovo molto “adulto”. Molto elegante, molto raffinato, molto attento ai particolari, curato in ogni singola sfumatura. Non c’è irruenza, non è un disco da ventenne che vuole spaccare e dimostrare tutto subito, senza stare troppo a pensarci su.
Beh, ti ringrazio. In effetti, rispetto ai precedenti è un disco molto meno immediato, molto meno spontaneo. I primi due dischi, sia “Veleno” che “Plush And Safe”, per motivi diversi partivano entrambi dalla stessa esigenza: descrivere sensazioni e stati d’animo, e farlo subito, in modo immediato. Con questo album invece mi sono preso un po’ più di tempo. E’ un disco uscito a due anni di distanza dal precedente; due anni in cui prima di tutto ho suonato molto dal vivo, e quando sei in giro parecchio a fare i concerti ti ritrovi spesso ad abbozzare delle idee col computer che poi sai che riprenderai in un secondo momento – come in effetti fai. All’inizio invece io i pezzi li aprivo, li lavoravo, e chiudevo tutto non prima di aver completato tutta la traccia, tutto in un colpo solo. Ora invece mi sono ritrovati a ragionarci su, a farli sedimentare, per poi riprenderli in un secondo momento. La spontaneità resta, sia chiaro: i miei brani restano molto autobiografici, lo spunto iniziale sono sempre mie sensazioni personali, ma stavolta queste sensazioni sono state elaborato su un piano di tempo più allungato. Quindi sì, è vero: sicuramente qui i brani sono più curati, ho dedicato più tempo ai dettagli, o almeno ad alcuni di essi. Inoltre, lavorando per la prima volta con dei musicisti anche in studio mi sono aperto al confronto, sono arrivati dei suggerimenti utili da altre persone che erano lì in studio a lavorare con me, per me, e questo mi poteva ortare a rivedere alcune idee iniziali. Per me questa è un’esperienza nuova, non avevo mai lavorato così, non avevo mai affrontato un tale processo di condivisione. In passato ero sempre io, solo e solamente io, che lavoravo ai miei brani e stop. Stavolta è stato proprio tutto diverso. Trovarsi in studio da me a pranzo, si mangia assieme, poi si ascoltano assieme alcuni dischi nel pomeriggio, le ultime due ore prima di cena si iniziava a registrare qualcosa… Abbiamo parlato tanto di musica a trecentosessanta gradi, di sensibilità artistiche. Non so se “Solchi” è un disco più maturo, più “adulto” come dici tu, ma sicuramente c’è più ragionamento e meno immediatezza. Talvolta è un bene, talvolta è un male; ma avendo avuto l’ultimo anno in cui volontariamente mi sono fermato col tour e con le date ho avuto più tempo per me, per leggere, per ascoltare. Qualcosa che negli anni precedenti avevo sì sempre fatto, ma in modo molto meno approfondito.
Il paradosso è che pur essendo il tuo disco più meditato e ragionato a livello di approccio, è comunque un disco parecchio emotivo, emozionale: per i campionamenti, per un certo tipo di tracce vocali…
Questo perché nell’idea iniziale “Solchi” voleva essere prima di tutto un omaggio alla mia infanzia. Il concept iniziale del disco era questo. Negli ultimi due anni mi sono trasferito e cambiato casa più volte, ho fatto due mesi da vero e proprio nomade, ad un certo punto sono tornato a Ravenna a casa dei miei genitori. Lì ho trovato parecchie vecchie cassettine registrate da mio papà per me e mia sorella quando eravamo piccoli; ho rispolverato il walkman; ho ritrovato le cassette che registravo io quando ero adolescente, mixtape per amici, cose mixate male, grezze, ma comunque risentirle è stato emozionante. “Solchi” deve essere non tanto un omaggio alla mia infanzia, alla fine, ma un omaggio ai vari step del mio rapporto con la musica. Ci sono, all’interno dell’album, tanti sample, field recording e rumori che vengono da alcuni di quei nastri – ho deciso di introdurli nei vari brani dell’album in piccolissime porzioni. Porzioni così piccole che magari solo io riesco ad accorgermene, ma per me comunque è importante. Dà anche una logica narrativa al racconto di alcuni brani.
Essendo un disco così personale, quanto è remixabile “Solchi”? Al posto tuo, dopo quello che m’hai raccontato, mi farei qualche remora a darlo in mano ad altri.
Già. I remix talvolta sono… Diciamo così: mi è capitato di lavorare con dei producer che, prendendo un piccolo elemento, riescono a trasformare il brano completamente, portandolo in una dimensione del tutto nuova. Il che è interessante – e potrebbe essere interessante pure per me. Ma io di mio non sono un gran fan dei dischi di remix. Non è un caso che né “Veleno” né “Plush And Safe” siano usciti in versione remixata.
Non ci sarà quindi un “Solchi” remix.
Non credo. Forse, farò qualche edit di un paio di brani. “Records”, il brano che avete presentato in anteprima, e che ho registrato con l’aiuto alle tastiere di Ricky dei Funk Rimini. Il titolo nasce proprio dal fatto che, se lo ascolti, ha vari cambi, vari momenti diversi, ti dà quasi l’idea di un dj set, di – appunto – una successione di “records”, di dischi.
Qual è il tuo rapporto con la dimensione live? Ormai hai un bel po’ di esperienza alle spalle, in questo campo.
In effetti, tolto quest’ultimo anno – in cui come dicevo ho deciso volontariamente di fermarmi – devo dire che questa esperienza di andare in giro a suonare è stata davvero gratificante, ho conosciuto tantissime persone. E’ pure vero però che girare tanto è stancante, un po’ logora: prima di tutto perché si passa un sacco di tempo stando da soli. Ecco perché ora sono molto contento di poter iniziare ad andare in giro con una band, con persone con cui mi trovo anche bene umanamente, con cui posso scherzare alla grande. Questo in tour è molto importante: quando stai lontano da casa tre, quattro giorni di fila interagisci con persone che magari sono anche super, ma in ogni caso non sono e non possono essere amici con cui c’è già una lunga complicità, una profonda conoscenza reciproca. Non sono persone con cui puoi cazzeggiare, ecco, con cui ti capisci al volo senza sforzo. Per quanto ottime esse siano.
Chi si occupa di musica, oggi, in Italia, lo fa perché è il migliore degli hobby possibili o perché spera sempre sia la chiave per una svolta in positivo della propria vita economica e lavorativa?
Mi è capitato negli anni di conoscere tante persone diverse, che stanno nel mondo della musica per le più disparate motivazioni. Ci sono persone per cui dedicarsi alla musica è un bisogno quasi fisiologico, un qualcosa di forte che ti accompagna sempre qualsiasi cosa tu faccia nella vita. Io ad esempio penso di appartenere a questa categoria. A prescindere dal percorso che ho fatto, che sto facendo e che farò, la musica per me è davvero imporatante. E’ uno spazio dove rinchiudermi anche fisicamente, entrando in un mondo fatto di puri suoni. Cosa che faccio spesso. C’è tantissima musica che ho fatto, per dire, ma che non ho mai fatto uscire. Ci sono quelli che scrivono, quelli che dipingono, quelli che corrono, quelli che danno pugni a un sacco; io faccio musica, e la faccio perché è un modo di “liberarmi” da tante cose. Ci sono invece persone che ho conosciuto che hanno un diverso tipo di approccio: sono più attente all’immagine di sé, all’essere su un palco, all’essere venerati da chi ti sta guardando. E’ un approccio che, sinceramente… Mettiamola così: stare su un palco può essere bello, talvolta, ma in generale salire su un palco un po’ mi imbarazza. Mi imbarazza un certo modo di apparire, di comunicare se stesso. A volte vorrei metterci meno la faccia e più la musica. Ma mi rendo conto che è un po’ difficile.