Ci si conosce ormai da quasi quindici anni, con Carola Pisaturo. Dai tempi in cui c’era ‘sta tizia in tuta da ginnastica, alla Red Bull Music Academy del 2004, dall’aria seria, con cui in realtà lì ci si erano scambiati a malepena dei saluti e delle presentazioni. Poi però le rispettive tracce lavorative hanno portato a sempre più incroci e, insomma, ad un certo punto manco te ne accorgi e sei diventato amico per la pelle. Ma con Carola è così. Una delle persone più “calde”, umane, sincere si possano incontrare nel clubbing italiano; e, tra le altre cose, una delle dj tecnicamente più serie e preparate. Non ha mai usato scorciatoie di nessun tipo e, soprattutto, non ha nemmeno ostentato di non averle usate: la parole d’ordine con lei è naturalezza. Ed è con naturalezza che si è prestata a questa chiacchierata lunga e non banale, dove si parla molto di crisi, di momenti di dubbio, di come certe volte si resti intrappolati da un certo tipo di meccanismi e non sempre si ha la forza (o la voglia) di uscirne fuori. Leggetevela bene, questa intervista: difficilmente in giro ne troverete di più sincere. Valgono molto più di queste parole di cento filmati di peak time con la gente mani in aria di fronte alla console – e proprio questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di incontrarci, per una volta, non a parlare di musica o dei film di Zucker, Abrahams e Zucker (una grande passione comune) per i fatti nostri, ma per tirarne fuori una vera e proprio intervista.
Carola, allora: a che punto sei della tua carriera?
Sai cosa? Fino a poco fa ti avrei risposto: “In un momento di crisi”. E l’avrei fatto con molta naturalezza. Perché ormai ho imparato: queste sono piccole crisi che mi arrivano ormai ciclicamente, arrivano quando sento che devo rimettermi in discussione, quando avverto che mi sto legando troppo a qualcosa che invece, in qualche modo, mi sta stretto. In generale succede che mi sento felicemente parte di qualcosa, riesco a fare bene il mio lavoro, riesco ad inserirmi bene in determinati contesti e dinamiche; poi però all’improvviso sento il bisogno di scappare, di evadere. Ecco: qualche anno fa, questa cosa si era manifestata in maniera davvero pesante.
Mi ricordo. Quando avevi annunciato di prenderti una pausa.
Vuoi la verità? Avevo deciso di mandare tutto affanculo! Una mattina mi ero svegliata e, zac: avevo fatto cancellare tutto le date. Stop. Non solo: avevo anche cambiato numero di telefono, mi ero tolta da Facebook e, semplicemente, me ne sono andata. Via, al mare. Quello è stato il momento più alto di una insofferenza che però covava in me già da tempo, e che anche successivamente si è riproposta – mi accompagna in qualche modo in maniera costante, appunto. La differenza è che la prima volta che venne fuori questa insofferenza fu pesantissimo. Ora, essendoci già passata, sono per certi versi più tranquilla… so come funziona. So gestire la cosa. Da un lato è comunque una sofferenza, perché non è mai piacevole sentire di doversi “ribellare a se stessi”, di dover scappare da qualcosa – senza peraltro nemmeno capire bene da cosa si sta scappando e perché lo si sta facendo. Dall’altro, più passa il tempo più vedo quanto tutto ciò possa essere anche salutare. Perché quando accade, ad un certo ti ritrovi anche a chiederti, molto semplicemente: “Ma io, cosa voglio realmente? Cos’è quello che desidero?”. La prima volta che questa insoddisfazione è scoppiata, comunque, quella della famosa “pausa”, è stato davvero tutto molto drastico. Ho ascoltato in loop solo ed esclusivamente Lucio Dalla, per tre mesi. E un po’ di Battisti, giusto le cose strumentali. Nient’altro. Volevo dare un taglio completo, totale ed assoluto con quello che era il “mio” mondo, anche dal punto di vista musicale. E sai cosa? Facendolo, ero sentita libera come non mai. Anche perché ero realmente convinta che basta, nulla sarebbe più tornato come prima, non sarei tornata a fare la vita che facevo, punto. Davvero.
Non solo una crisi musicale quindi, nel senso che non ti appassionava la musica in cui eri immersa (e che suonavi), proprio una crisi personale.
Sì sì, assolutamente. In quei mesi mi sono ritrovata seriamente a pensare a cosa avrei fatto “dopo”, visto che in quanto stavo facendo non mi riconoscevo più. “Che cavolo faccio? Perché quanto ho fatto finora, non posso continuare più a farlo. Non lo sento più. Non mi rappresenta più”. Il paradosso è che proprio in quelle settimane ho recuperato un entusiasmo vero per la musica, producendo pure un disco: “Tanto non deve uscire, non uscirà mai, posso fare quello che mi pare, non devo stare attenta a seguire leggi di mercato, se piace solo a me va benissimo, tanto lo sto facendo solo per passare il tempo!”. Ecco: questo non dover fare le cose con scopi e strategie precise mi ha dato un senso di libertà infinito, senso che non provavo da chissà quanto tempo e che, invece, è per me qualcosa di assolutamente fondamentale. Ma proprio fondamentale. Anche perché, a pensarci bene, è stato il mio principio guida in mille situazioni diverse della mia vita: quando mi sento in qualche modo “costretta”, che si tratti di un rapporto di amicizia, di un legame amoroso, di una regola imposta dai genitori, di una dinamica imposta dalla società mi si rizzano i peli – come i gatti – e devo scappare.
Ok. Sei scappata. Poi però sei tornata.
Sono tornata sì: carichissima, super-gasata, al tempo stesso rilassata e distaccata. Il distacco, assieme alla disciplina, sono le cose più importanti che ho imparato da quell’esperienza. Disciplina, ovvero quella che ti costringe ad importi delle regole su te stesso: doppiamente importanti in un mondo così ingarbugliato e scoppiettante come il nostro, dove si tende all’esasperazione e all’eccesso – anche fisicamente – su tutto. Distacco, poi: la capacità di sapersi fermare dicendo “No, aspetta un attimo. Non muore nessuno si mi fermo, se dico di no”, dando la giusta importanza alle cose. La giusta leggerezza, anche.
Sai, per certi versi è strano sentirtelo dire, perché il distacco è una delle ultime caratteristiche che si potrebbero accompagnare a te: quando sei in giro a suonare sei sempre sorridente, gentile, coinvolta, entusiasta, non ti tiri mai indietro, quando invece ci sono artisti che fanno abbastanza il contrario – fanno cioè il loro, non danno particolari confidenze, passano all’incasso, salutano. Tu sei il contrario.
Sai, quando parlo di distacco non intendo il distacco emotivo dalle persone e dalle situazioni. Tutto quello che faccio lo faccio perché è nella mia natura farlo: sto bene, mi diverto, mi viene spontaneo. Qui per distacco intendo più la capacità di saper prendere le cose con leggerezza, relativizzandole.
Ad ogni modo: sei tornata. E? Quando sei tornata hai trovato le cose un po’ diverse rispetto a come le avevi lasciate?
No, no, assolutamente uguali! (risate, NdI) Non è cambiato nulla, ma sono cambiata io. Anche perché, come credo succeda a molti, quando non si sta bene con se stessi vengono fuori anche dei lati di sé che, in realtà, non sono proprio tuoi, e soprattutto mai vorresti lo fossero. Vengono fuori rancore, invidia; viene fuori l’additare questo o quell’altro, cercare capri espiatori e scuse per lamentarsi e dichiararsi vittima. Il più delle volte però il problema vero non sta in quello che è attorno a te, ma sta prima di tutto dentro di te: sei tu a sentirti inadeguato, non all’altezza. Stupidamente.
Se non sei a tuo agio con te stesso, difficilmente puoi esserlo al cento per cento con gli altri, con quello che ti circonda.
Ho imparato a capirlo. E, nel momento in cui l’ho capito, sono tornata. E sono tornata nella parte migliore di me. Ricominciando con un entusiasmo che, a ben vedere, avevo perduto.
Sai, il fatto di sederci a un tavolo e farci questa chiacchierata a registratore aperto nasce per mille motivi. Uno di questi è un tuo post mi pare su Facebook di qualche tempo fa, piuttosto pungente, in cui in sintesi prendevi un po’ sarcasticamente in giro tutte queste foto di serate con gente mani all’aria, nel momento di massimo entusiasmo. Il senso era: non è che state dando una rappresentazione edulcorata ed artificalmente euforica della realtà? L’ho trovata molto interessante, questa cosa (e molto centrata). Ma vuol dire anche che il tuo spirito critico non è che non ci sia…
Proprio per i motivi che ti ho detto, e proprio perché ho imparato a conoscermi sapendo che, ciclicamente, arrivano momenti in cui mi sento un po’ a disagio, ho imparato a fare molta, molta attenzione a non cadere nella critica gratuita, a chiedermi mille volte se i giudizi che esprimo arrivano da una me stessa tranquille e serena oppure se invece sto solo sfogando una mia frustrazione che arriva da altri motivi. E ti dirò: ho fatto quel post perché effettivamente mi ha stancato aprire Instagram, la domenica o il lunedì, e trovare quasi solo lo stesso tipo di post, di immagine. Scrolli, scrolli, scrolli: dieci video praticamente tutti uguali fra di loro! Non è un mio disagio interiore a farmelo vedere, è oggettivamente così! No? Mi ha fatto riflettere, questa cosa, e devo dire che questa omogeneità euforica ostentata non mi fa impazzire, non credo sia realmente utile per la scena. Tanto più che io per prima sono sempre a rischio di sentirmi annoiata dal punto di vista musicale. Vedi: io vengo dalla techno. E: amo la techno. E’ il mio genere musicale di riferimento. Ok. Ma la techno che va ora per la maggiore… Attenzione, aspetta: se va per la maggiore è perché è il pubblico a sancirlo, e non ha mai senso sindacare il giudizio e le volontà del pubblico; anche perché io ho bisogno del pubblico, amo il pubblico, e tutto questo rientra in un meccanismo – quello del clubbing – di cui io per prima faccio parte. Però ecco, qualche volta mi sento un po’… non so, come se certe dinamiche non mi appartengano del tutto. Sai qual è il punto? Sono abbastanza delusa dalla tecnologia, ecco. Pensaci: rispetto ad anni fa, oggi abbiamo i mezzi per fare praticamente di tutto, non credi? Oggi anche un sordo può aprire un programma, visualizzare le forme d’onda, mettere in sync due tracce, vedere la tonalità, fare un mix inappuntabile. Ripeto: tutto questo senza nemmeno sentirla, la musica! La tecnologia oggi ti permette questo. Non è un male, anzi, è bellissimo che la tecnologia abbia avuto una evoluzione pazzesca, rendendo possibili delle cose inimmaginabili fino a solo pochi anni fa; ma, com’è possibile che questa evoluzione tecnologica non abbia portato a un salto di qualità anche dal punto di vista della creazione musicale?
Qualcosa che aumenti i colori, le soluzioni, le innovazioni…
Com’è che si diceva? “Impara prima la tecnica; perché solo una volta che avrai imparato alla perfezione la tecnica potrai sbizzarrirti dal punto di vista creativo e della ricerca”. Beh, ora la tecnica ci è fornita direttamente dalla tecnologia, senza che quasi ci sia più bisogno di mettersi lì ad impararla con anni di pratica. Però mi guardo attorno e la techno, insomma, invece di evolversi è rimasta un po’ rannicchiata su se stessa, se non addirittura appiattita. Cos’è oggi che fa la differenza? Il suono. Anzi: la potenza sonora. Il campo del confronto si è spostato su quello. Oggi tutti a riempire lo spettro sonoro, sempre di più, sempre di più. Arrivare ogni volta all’estremo. Perché devi suonare “potente”. E allora via di pezzi in cui lo spettro sonoro è pieno, saturo, dove usi effetti come il “rumore bianco” per riempire quei pochi buchi che possono essere rimasti. Una rincorsa a chi fa di più, a chi “riempie” di più. E questo, dopo un po’, è noioso. Perché il gioco è sempre quello.
Diventa una competizione più fra ingegneri del suono che fra artisti creatori di musica.
Questo è il gioco a cui devi giocare. Ora è così, e tu di questo contesto fai parte. Risultato? Diventa una guerra a chi ce l’ha più duro – il suono. A chi sfonda di più. A chi fa la pausa con la ripartenza più cattiva e violenta. A chi ha il braccio più grosso e potente per sbracciarsi meglio.
Sono abbastanza delusa dalla tecnologia, ecco. Com’è possibile che tutta l’evoluzione tecnologica per produrre e suonare la nostra musica non abbia portato a un salto di qualità anche dal punto di vista creativo?
Che poi, tutto questo avrebbe senso fossimo nel campo della techno dura e pura, non dico le robe schrantz ma, per dire, un Dj Rush: quello è techno in cui, effettivamente, come dire, “devi mena’…”; tu però operi di più in campo tech-house, che dovrebbe essere un contesto dove le sfumature sono anzi il cuore della questione. In effetti ultimamente ti ho sentito fare qualche set, vedo quello al Dude di Milano quest’anno, in cui eri insolitamente soulful, hai messo un sacco di cantati… Stai iniziando a sperimentare una nuova direzione?
Ad un certo punto mi ero trovata, come dire?, incastrata in un certo tipo di circuito, in un certo tipo di date che… ecco, diciamo che se scendevi anche solo per un attimo di intensità era un casino, la pista rischiava subito di svuotarsi e tu di passare per quella che non sa tenere il dancefloor. Oh, suonare “forte” è anche molto divertente: forte come pressione sonora, come spettro delle frequenze, come saturazione di tutto. Ma, una vita a dover suonare solo così? Veramente? No. Dovevo tirarmi fuori da questo. Il che non significa rinnegare niente e criticare nessuno, sia chiaro; semplicemente, io sento l’esigenza di prendere, anzi, riprendere ad andare anche in altre direzioni, esplorare un po’, perché comunque quello che voglio esprimere è tutto quello che è il mio mondo musicale, non solo una parte ben specifica (e “strumentale” a fare bella figura in certi contesti). Chiaro, quando metti un pezzo techno è ovvio che la pista risponde meglio. E’ una “soluzione facile”. Ma “divertente” è meglio che “facile”, per me ma credo alla lunga anche per il pubblico, e ora per me è molto più divertente esplorare cosa succede anche quando diminuisci l’intensità, quando esplori non solo verso l’alto ma anche verso il basso. Anche perché parliamone, a furia di andare tutti verso l’alto – dove cazzo andiamo? Siamo tutti arrivati al massimo. Non c’è più una dinamica delle frequenze, i brani sono tutti appiattiti; verso l’alto, certo, ma pur sempre appiattiti, omogenei. Gli effetti che vengono usati dai dj servono ormai quasi solo esclusivamente a “riempire” il suono; ci sono sempre meno soluzioni atipiche (e dinamicamente più fragili, dal punto di vista del suono) come “Prendo un solo di batteria preso da qualche parte e lo metto lì”.
(Carola Pisaturo sorridente in azione; continua sotto)
Guarda, parlando chiaro: senti un problema di percezione attorno alla tua figura? La storia della “Pistaduro”, il fatto di arrivare da Napoli, di far parte di Cocoon… c’è un certo tipo di immaginario attorno a te. Che però è anche un immaginario che ti ha molto aiutato, a diventare popolare e ad avere costantemente un alto numero di date, con un bel riscontro di pubblico.
Oh sì, assolutamente.
Ma in questo momento mi pare che in questo immaginario non ti rispecchi del tutto.
Non lo so, difficile dirlo. Io credo di essere sempre stata una dj abbastanza versatile. Dici che non mi vedono come tale?
La mia opinione ce l’ho, ma qua ora sono io a fare le domande, non tu… (risate, NdI)
Non so che dirti. Però guarda, mi viene ad esempio da pensare all’ultima volta che ho fatto una tripla, l’estate scorsa: prima Napoli in apertura ad Hawtin, poi al Kappa FutuFestival nel palco più tech-house (quello dove l’headliner era Dixon, per intenderci), infine in Romania con Sven a una serata Cocoon. Beh: io da qual weekend sono tornata a casa dandomi, simbolicamente, una pacca sulle spalle, “Brava Carola, dai, stavolta sei stata brava”. Per me essere versatile significa saper capire tre palchi e tre situazioni molto diverse tra loro, per mille motivi, e insomma mi pareva di esserci riuscita. Chiaro, so che attorno a me c’è un’immagine forte e di un certo tipo, cosa data dal fatto che appartengo per l’Europa a una agenzia come Cocoon, al fatto che provenga da Napoli, dove c’è una tradizione techno eccezionale e ben connotata… Ma in mezzo a tutto questo sono un po’ come un topo che tenta di divincolarsi e di sfuggire, non di restare lì fermo ad aspettare che arrivi il formaggio. E’ una mia caratteristica proprio di carattere, questa. Di nuovo: ho imparato il piacere di passare dei momenti di crisi, e da lì il piacere di destabilizzare come di sentirsi destabilizzati; questo significa anche imparare il piacere e la soddisfazione di dare il proprio meglio pure in situazioni che magari non sempre mi rappresentano al cento per cento.
Beh, visto che hai citato questa cosa della tripla, ti tocca una domanda: proprio sotto un video girato durante una di quelle tra date, quella al Kappa FuturFestival, nacque una discussione su Facebook infinita, tra chi parlava bene di te e ti applaudiva e chi invece sparava a zero. Come ci si comporta in questi casi? Si legge? Si segue tutto? Si legge e si sta zitti? Si risponde in privato?
Quelli che dicono che non leggono nulla, beh, non credergli… Leggi, certo che leggi! Comunque, partiamo intanto da un presupposto: non amo rivedermi in video. E, infatti, se noti sono una che posta pochissimi video, anche se sono perfettamente consapevole che oggi invece sia una modalità vincente, la più vincente di tutte. Ma resto romanticamente convinta che la cosa più bella è quando certe esperienze restano racchiuse nel momento in cui sono state vissute, lì e solo lì. Ad ogni modo: sì, ho letto quello che venne scritto e sì, sicuramente per qualche intervento ci sono rimasta male. Poi già in passato mi era successa una cosa strana: avevo postato un flyer di una mia esibizione a Movement in arrivo, ed improvvisamente sotto quel flyer si era scatenata una ridda di commenti negativi, ma così, dal nulla, con anche delle bizzarre parole o frasi ricorrenti abbastanza nonsense, tipo “Il lago è blu”. Lì per lì ci ero rimasta di merda, poi ho parlato con amici che mi hanno aiutato a capire che era in qualche modo tutta una cosa organizzata: un gruppo di persone si era messo d’accordo per trollarmi. Giusto per divertirsi un po’. Quindi ecco, io lì disperata che mi chiedo “Ma perché questo odio…” mentre in realtà non avevo dato il giusto peso alla cosa. Sai, mai sottovalutare la “legge del branco”: se in due o tre si mettono d’accordo per postare commenti negativi con una certa violenza e costanza, nulla di più facile che altri si uniscano così, “tanto per”, per mera forza d’inerzia, e non perché siano convinti che tu faccia così schifo. Se vedi che sta accadendo, sai già cosa aspettarti. Tornando comunque al video che dicevi e ai commenti che sono apparsi sotto: fra i commenti negativi, beh, non è che ce ne fossero di particolarmente articolati e costruttivi. Se l’argomentazione denigratoria principale in un post verteva sul fatto che indossavo delle “tutine anni ‘80”, che gli vuoi dire? Puoi metterla su un confronto musicale? Soprattutto, perché dovresti farlo? Chiaro che invece chi ti critica più sul pezzo, anche in modo netto, in qualche modo colpisce la tua attenzione e le sue parole te le porti in parte dietro. Anche solo inconsciamente. Quello sì.
Chi sono in questo momento gli artisti che fanno la musica da dancefloor più interessante?
Urca, lo sai che su queste domande a me cala una saracinesca nera davanti agli occhi e non so mai quale risposta dare… Comunque: non voglio sembrare quella che dà contro al mainstream per principio, perché quello è uno sport troppo facile e comodo, ma vedo che per ora le cose per me più interessanti sono ancora quelle che richiamano un po’ meno gente, quelle che nei festival non sono mai nei main stage.
Anche perché ormai fare il dj nel main stage di un festival è diventato quasi un altro sport: sei obbligato a fare una messa cantata, parliamoci chiaro. Il pubblico è lì per questo.
Per fortuna ci sono delle eccezioni. Una di queste è la Kraviz. Io la difendo da sempre. Perché? Perché lei oggi ormai è veramente nell’Olimpo dei più grandi, per popolarità, è allo stesso livello dei Cox e compagnia bella; però nei suoi set ogni volta mi capita di sentire delle cose che mi sorprendono, mi spiazzano, mi fanno dire “No, aspetta, che cazzo sta mettendo?”. Insomma, credo che lei veramente meriti di stare dove sta. Ha pure un’etichetta che fa cose interessanti. Fin da quando è uscita, col fatto che è bellissima, è sempre stata accompagnata da scetticismo se non peggio, “Eh, ma di sicuro le fanno le tracce”, invece credo proprio abbia dimostrato che sia un artista che ci mette del suo, eccome.
A proposito di metterci del proprio: nelle tue produzioni, alla fine ciò che viene fuori sono sempre produzioni da dancefloor, come release. Ti è mai venuta la tentazione di fare qualcosa di più particolare?
Sai cosa? In realtà, proprio le produzioni “altre” sarebbero quello a cui forse sono più portata; poi però sì, sono vittima anche io del “No, aspetta, fermati, devi fare qualcosa che abbia più senso per come la gente ti percepisce, per le dinamiche di mercato…”. Aggiungi che io faccio pochissimo, lo so, sono la prima a dire che dovrei fare molto di più come release. Sai che ti dico? Forse ho bisogno di un’altra crisi bella pesante, di altri tre mesi di mare… (risate, NdI). Comunque sì, non nascondiamolo: rimani sempre un po’ incastrato. Sei una dj, hai una etichetta che ha una identità di un certo tipo a cui è anche giusto essere fedeli… ed è tosta, sì. Provare a fare qualcosa di molto diverso così dal nulla rischia di diventare una cosa con poco senso, questo pensiero si impossessa di te.
Sì, sei una dj, ben “established” nel mondo del clubbing, però una cosa di cui si parla troppo poco è che hai un background che va ben al di là di queste traiettorie: hai fatto la SAE a Milano, hai una preparazione da tecnico del suono molto alta, hai lavorato in progetti pop…
Si parla troppo poco del fatto che sono stata una nerdona da studio, eh? (ride, NdI) Io in realtà volevo fare la veterinaria, ma dopo il primo anno di studi ho capito che non era la mia strada. Ricordo un episodio ben preciso: il mio cane fu attaccato in strada, lo portai subito da un veterinario, gli stetti accanto mentre gli mettevano e punti e… sbam, svenuta. “Ecco, forse meglio fare la volontaria nei canili, ma per fare la veterinaria forse non è che ci sia proprio tagliata, eh” mi sono detta. La passione per la musica c’era già: avevo lavorato in un negozio di dischi, avevo fatto varie cose legate alla musica, quindi ecco, ad un certo punto decido di partire per Milano, per fare la SAE, corso per ingegneri del suono, tostissimo. Anche perché all’epoca lo si faceva concentrato in un anno solo: stavi in scuola dieci ore di fila, poi ne uscivi, ma arrivata a casa dovevi continuare a studiare per il giorno dopo. Un delirio. Ma mi piaceva tanto, così come ancora adesso mi piace moltissimo considerare l’aspetto “fisico” del suono, senza soffermarmi solo sulla musica in sé. Dopo quell’esperienza sono finita a lavorare in uno studio di registrazione d’alto livello, facendo un sacco di cose pop.
Tipo?
Gigi D’Alessio, Tiromancino… produzioni importanti, che per un tecnico del suono sono vita, sono soddisfazioni.
In effetti spesso si sottovaluta come il pop ad alti livelli metta in campo professionisti ai livelli più alti, in quelle che sono le figure un po’ “dietro le quinte” e in generale le condizioni entro cui un disco è creato. Poi che la musica piaccia o meno, quello è un altro discorso. Ma il pop i soldi, quando li fa, li usa per cercare la qualità produttiva più alta, per coinvolgere i migliori professionisti del settore.
Quando ci sono delle produzioni grosse, tanto per dirti, se c’è bisogno di una parte di basso che fanno? Chiamano il bassista di Sting! Quindi sì, stai lavorando a Gigi D’Alessio, ma la linee di basso in studio le sta registrando il bassista di Sting… O i Tiromancino, per dire, che si registrano tutte le batterie in analogico: come fonico, queste situazioni sono una fortuna e un accrescimento inestimabile. Anche perché spesso, per produzioni di questi tipo, vengono affittate strumentazioni extra quindi la possibilità per te di imparare cose nuove è virtualmente infinita. Ad ogni modo sì, può far ridere che io compaia nei credits di un disco di Gigi D’Alessio ma in realtà è un grande vanto, per me come fonico.
Puoi vantare anche un’altra cosa che pochi dj possono vantare: aver suonato in uno stadio.
Ma non solo uno stadio: il mio stadio, lo stadio della mia città, il San Paolo! Dove ero già stata per un evento che fu un’emozione incredibile, il concerto di Pino Daniele. Tornarci per aprire il concerto di Jovanotti, beh, quando me l’hanno proposto ho detto subito di sì, “Quando mai mi ricapita…”. Ti racconto questo: quando sono arrivata, invece di entrare da dietro mi sono ritrovata ad entrare da davanti, dagli ingressi del pubblico, quindi andando verso il backstage mi sono trovata per un bel po’ il palco davanti, in tutta la sua grandezza, anzi, enormità. Guardandolo mi dicevo semplicemente: “Madonna. Io qui non ci salgo”, abbastanza terrorizzata. Poi però quando su quel palco ci sono salita, mettendomi in console, improvvisamente è come se fossi stata in un club da 300 persone, con lo stesso senso di intimità, gioia e famigliarità. Sì, ho questa fortuna che una volta salita in console l’emozione scompare, mi sento davvero nel mio elemento, quindi che sia in un posto da migliaia di persone o in un club di amici la sensazione è la stessa (…ed è bella!). Però non lo nascondo, il primo impatto col San Paolo è stato terrificante… (ride, NdI)
Giusto per continuare a parlare di cose terrificanti: com’è portare avanti una label discografica, nel 2018? Folle?
Sì, abbastanza. Anzi aspetta: non solo portare avanti una etichetta discografica nel 2018, ma portare avanti nel 2018 una etichetta discografica che fa vinile: ancora peggio! Però ti devo dire che dopo tanti anni in cui è stato un po’ difficile trovare l’assetto, ora con Andrea e Giacomo – che lavorano con me sull’etichetta – abbiamo trovato un equilibrio e un’organizzazione perfetti. Ci siamo divisi i compiti per bene. A me spetta quello della scelta artistica, dell’A&R. Dal punto di vista operativo, abbiamo ingranato: di conseguenza riusciamo a produrre un disco senza tempi biblici, e ogni tanto vediamo pure qualche soldo. A ben pensarci, quella di Claque è una storia in crescita e sì, stiamo meglio adesso rispetto a qualche anno fa. Certo, ora che c’è stato questo gran ritorno al vinile c’è un intasamento incredibile nelle poche pressing plant rimaste, ma tolto questo per il resto non mi lamento assolutamente. La label ha undici anni, e in realtà è appena come catalogo al numero venti: c’è chi al venti c’è arrivato in due anni… Colpa un po’ della mia pigrizia, un po’ perché voglio produrre solo ed esclusivamente quello che mi piace e pare, nel modo in cui dico io, nel momento in cui dico io. Alla fine comunque siamo ancora qui, nel nostro piccolo siamo credibili, credo, e rispettati. E’ un bel traguardo. E negli ultimi tempi, con artisti e remixer, stiamo riuscendo pure ad alzare l’asticella.
Insomma, crisi personali a parte, complessivamente sei contenta.
Riparliamone fra un mese, o fra tre mesi, o fra sei: magari sono di nuovo in crisi! Ma dopo quella grossa grossa di qualche anno fa, ho smesso di preoccuparmi. Arrivare a conoscersi, a capire “Eh, io sono fatta così” è molto bello: ti fa tirare un gran sospiro di sollievo. Anche perché poi ci pensi su, e capisci che i momenti di crisi sono davvero una parte di te, sono una costante, sono qualcosa che non ti devi nascondere, anche perché poi è da lì che resetti tutto e riprendi a cercare, ad esplorare. Ben venga. Eccome.