Diciamoci la verità: quando il 26 maggio Stones Throw ha annunciato Washed Out come nuovo membro del suo rooster, un sobbalzo sulla sedia ce lo siamo fatti, ragionevolmente per due motivi. Il primo sta nel fatto che è impossibile – o molto, molto difficile – trovare un disco anche solo bruttino su Stones Throw. Il secondo è che vuoi o non vuoi per Washed Out l’approdo su questa label, già casa di J Dilla e Madlib (e ci fermiamo ai diamanti), ci sembra l’evoluzione naturale di un percorso che forse gli consente di scrollarsi di dosso il mantello degli onori e degli oneri di fare chillwave.
In Stones Throw sanno fare, e fanno, dischi che hanno una caratura stilistica ben precisa. C’è l’assoluta attenzione verso il sample e verso il beat, verso la sua ricerca (mai scontata) del campione perfetto e del suo sviluppo. Se è vero che Ernest Greene ha lavorato in solitaria per due anni a questo “Mister Mellow”, assistito unicamente da un ingegnere del suono, è vero anche che qualche dritta sul suono stesso, sul senso di suonare “smooth” della questione, dalla label deve essergli arrivata, o quantomeno Greene se la sarà presa di suo essendone fan dichiarato.
Va aggiunto anche che Washed Out le sue cose le ha sempre fatte “a modino”, passando da pioniere a imperatore di un genere da sempre sull’orlo del sonno e della ripetitività, al netto dell’accusa di fare pezzi fotocopia – in parte vera, in parte no – i lavori precedenti non avevano riscontrato pareri negativi, anzi.
È logico che se a fare un’ipotetica addizione metti due simili addendi, il risultato non può che essere altissimo, sfiorando l’eccellenza. Qui a Soundwall non diamo voti ma se a dieci levi due il risultato è presto fatto.
In “Mister Mellow” spariscono le chitarrine con l’effetto “wah wah” e le dilatazioni esasperate dei precedenti lavori, a favore di un “bum bum cha” farcito di “sensimillia”, che fa solo petting con l’hip hop e qualcosa di molto più serio con il groove. “Mister Mellow” è una storia d’amore fatta di sogni ed estate, ci fa sognare il cantato dreamy sul groove di “Hard To Say Goodbye”, con gli archi appena accennati alla maniera di Paul Williams. Ancora più bella l’house da crociera di “Get Lost” in cui risplendono cow bells e free jazz, quasi fosse una notte alla playboy mansion.
Dodici gemme di relax per nemmeno mezz’ora di musica che finisce sì troppo presto, ma che si presta ad un ascolto continuo. È così perfetta, così rilassatamente incastrata, a suo modo semplice anche a tratti impulsiva, da lasciare stupefatti.
Difficile dire se il percorso intrapreso da Washed Out sia quello su cui indirizzarsi o da continuare a battere, quello che ci sembra però di poter affermare con una certa sicurezza, è che lo spogliarsi di certi ingombranti vestiti -un altro “Paracosm” l’avremmo tollerato male- ha sicuramente giovato a Greene che ha prodotto in primis per se stesso e per il proprio gaudio e di riflesso per chi questo disco andrà ad ascoltarlo per parecchio tempo.
A dicembre manca tanto, tantissimo e per la nuova stagione sono previste almeno un paio di uscite mirabolanti (una su XL Recordings l’altra su Ninja Tune) ma ad oggi, avvolti da un’afa opprimente che obbliga e consiglia ritmi rallentati e compassati, questo va tra i dischi dell anno.
Quasi fosse un post scriptum va aggiunto che questo nuovo lavoro è legato a un visual della stessa durata che abbiamo letto in giro sia molto divertente. Non l’abbiamo vista e non ci sentiamo cosi preparati da andare a giudicare qualcosa che sia lontano dalla musica.