We don’t need no Ibiza… o almeno, ehi, non la Ibiza che stanno tentando di venderci. Ok: chi è veterano dell’Isla continua a ripetere “Calma e sangue freddo, Ibiza è stata dichiarata morta più volte, irrimediabilmente cambiata più volte, eppure un po’ di magia è ancora rimasta e sempre rimarrà”. Possiamo crederci, possiamo non crederci, ma intanto c’è una buona notizia: contrariamente a quanto poteva accadere a fine anni ’80, negli anni ’90 e ancora nella prima parte del nuovo millennio, oggi è molto più facile potersi prendere il meglio della “vita balearica” senza per forza dover andare all’estero – e andare ad ingrassare un sistema industriale che se è partito in un certo modo, volendo dare risalto al “nostro” mondo (e questo è bene&bello), si è però ben presto fatto prendere dalla bulimia e dalla voglia di spennare i polli fino all’ultima piuma, in modo crasso ed arrogante, e i polli guarda un po’ siamo noi, e se non siamo noi possono tranquillamente passare a quelli ancora più ricchi, pasciuti e tordi. C’è la fila.
La cosa ci è apparsa chiara come non mai nella seconda giornata di un piccolo ma delizioso festival nell’Alto Monferrato, Komorebi, lo scorso weekend: cinquecento, seicento persone – non tutte in pista, qualcuna stravaccata in una delle piscine pubbliche si potevano utilizzare col biglietto del festival – si stavano godendo un bellissimo set degli olandesi Beesmunt Soundsystem, nome famigliare per chi tiene d’occhio Red Light Radio. E’ facile però che a leggere ‘sto nome vi sia venuto da dire: “Eh? Chi?”: lo ammetto, pure chi vi scrive ha dovuto fare mente locale prima di ricordarsi bene di chi e cosa si trattasse. Già, perché David Van Der Leeuw e Luigi Vittorio Jansen, classe ’89, non è uno di quei nomi che esce di continuo nella compagnia di giro che occupa militarmente le line up dei club ibizenchi. Proprio no. Eppure il loro set, lo ripetiamo meraviglioso, era la cosa più balearica che ci fosse capitato di sentire da tempo a questa parte. Tipo, un set del Talabot dei bei tempi, quello che di regola ti faceva più viaggiare e menava piattamente (e passava all’incasso) ben di meno rispetto ad adesso. Nella loro house rallentata, atmosferica, avvolgente riuscivamo a sentire tutta la magia che aveva reso Ibiza un posto più unico che raro e, soprattutto, una vera Terra Promessa per il clubbing. Cosa che oggi non è più. Oggi è la Terra Promessa di chi col clubbing vuole fare soldi su scala industriale e senza scrupoli. Non è la stessa cosa.
C’era la musica (che era bellissima). C’erano le persone (che erano il giusto mix di freakettonaggine, educazione, presobenismo, amore per il prossimo e il contesto, attitudine al futuro e all’innovazione in modo naturale). C’era il luogo (sì, piccolo, ma affascinante, tra console particolari con architetture interessanti ed alti alberi a filtrare la luce del sole facendo da anfiteatro naturale). E c’eri tu che ti dicevi: “Sì, in un posto inculatissimo in mezzo al nulla sto respirando esattamente quello che la gente vorrebbe respirare pensando al nome, alla fama e all’aura di Ibiza. Esattamente quello”.
Semplicistico? Forse. Perché il plusvalore di Ibiza, quello che la rende desiderabile e regina del mercato, è il fatto che, come dire?, ci sono tutti e c’è tutto. Il party va avanti sette giorni alla settimana, ogni sera puoi scegliere tra una o più mega-adunate con ospiti di grido, e se passeggi in giro sei attorniato da gente come te. La domanda però da farsi è: ma ha senso, abbuffarsi così? Non è per caso come andare in un ristorante o in un fast food e ordinare di tutto di più, mangiando incessantemente? Lo faccio per fame, lo faccio per amore del cibo, o lo faccio per amore dell’ostentazione e dell’esagerare? Chi passa da una serata ad un after ad un’altra serata e ad un altro after ancora senza soluzione di continuità è un eroe, un party animal o un fesso? Soprattutto: sta facendo del bene al suo fisico, al suo divertimento, alla sua anima? Perché Ibiza, originariamente, era un posto – e in qualche caso lo è tutt’ora – dove la parola d’ordine non è trasgressione e consumismo del divertimento, bensì “benessere”. Un “benessere” che passava e passa anche dalla trasgressione, dalla libertà di costumi, dalla psicotropia: perché non è questione che per fare i bravi e non farsi del male bisogna rincoglionirsi come un Dj Aniceto in favore di telecamera, sventolando slogan da Giovanardi.
Il “benessere” di Ibiza stava anche nella musica, però. Stava molto nella musica. Se uno parla con Oakenfold o Rampling (alias: gli inglesi che, assieme a un pugno di amici, hanno rivoluzionato il mondo della musica e della società importando la rivoluzione dell’acid house e dell’ecstasy da Ibiza all’Europa), quello che sempre ti diranno è che la musica era un elemento imprescindibile, assolutamente imprescindibile del fascino e della magia. Proprio questa attenzione spasmodica alla musica, quindi allo spessore artistico di chi la propone, ha favorito negli anni il trasformarsi in vera industria dell’offerta “leisure” balearica: a Ibiza suonavi o se eri famoso, o se eri bravo, e soprattutto negli anni ’90 queste due cose marciavano spesso assieme, alimentandosi a vicenda. Non sempre, ma spesso. Probabilmente più spesso di adesso: perché all’epoca, nei primi passi della club culture, la tua fama si spargeva col passaparola, gli uffici stampa major si occupavano di rock e di pop, non filavano di pezza ‘sti quattro drogati della house e della techno.
Oggi non serve più andare ad Ibiza per sentire dj o producer che altrimenti non avresti sentito mai
Oggi non è più come un tempo. Oggi, non serve più andare ad Ibiza per sentire dj o producer che altrimenti non avresti sentito e ballato mai. Oggi abbiamo festival in Italia, come FAT FAT FAT, come Ortigia Sound System, come Jazz:Re:Found, come Nextones, come Dancity, come Terraforma (e, se volete le cose ENORMI, come il Kappa FuturFestival) che mettono una cura enorme nell’assemblare la line up, pur potendo contare come base di partenza su luoghi davvero belli ed affascinanti come venue, e in un weekend ti permettono veramente di fare il pieno di certi sapori sonori. E lo fanno stando per bene sul mercato: le loro scelte artistiche sono oculate, ma comunque rispecchiano in pieno quello che è il “discorso” contemporaneo su musica elettronica e clubbing; quindi anche chi è affascinato più dal “nome” che dalla “sostanza”, o comunque pretende di finire in un posto dove in cartellone ci sono artisti che conosce già o direttamente o per sentito dire da suoi amici “saputi” altrimenti non si sente garantito, ha veramente un mare di scelta.
Che poi, prendiamo il caso FAT FAT FAT, perché è esemplare, ma quello che diciamo per lui si potrebbe applicare, per molti versi, anche ad altri festival, a partire da quelli che abbiamo nominato poco più sopra: da un lato c’è una palese competenza e consapevolezza nel muoversi a livello di scelte, dall’altro comunque c’è la voglia di mantenere un approccio umano, non massificato, amichevole. E con prezzi ragionevoli. Nessuno di loro mette i biglietti a 70 per due artisti e mezzo e i drink a 20/25 euro l’uno: anche perché se lo facessero, verrebbero bastonati dal mercato, “Ma che siete scemi? Col cazzo che mi faccio rapinare da voi, che prezzi assurdi sono questi”. Ma anche se non venissero bastonati dal mercato, per assurdo, siamo abbastanza certi che non lo farebbero. Li conosciamo. E potreste (e dovreste) conoscerli anche voi.
In più, visto che è gente che la musica la ama veramente, se da un lato devono essere attenti a mettere su un cartellone di nomi conosciuti&riconoscibili, dall’altro sempre più spesso mostrano di voler comunque dettare una linea e una personalità, mettendo scelte particolari, non scontate, che sono rischiose – perché appunto sono nomi che non hanno o non hanno più il favore del grosso dei media, come appunto nel caso di Komorebi – ma che comunque sempre più andranno fatte. Per sopravvivenza. Perché nel frattempo i nomi grossi “di qualità”, il filone per intenderci che parte da Four Tet e Floating Points e arriva a quello che offre negli ultimi anni il Circoloco, fattosi attentissimo nel rispolverarsi un profilo alto e colto in campo clubbing, è entrato nei meccanismi delle grandi agenzie internazionali e, di conseguenza, ha iniziato ad essere un gioco molto, molto costoso, con margini sempre più ridotti per non dire nulli… o per non dire direttamente suicidi per il promoter locale (…sì, all’inizio c’è stato il circuito virtuoso per cui se facevi Theo Parrish o Four Tet invece del solito minimal-coso trapiantato a Berlino resident al Watergate dimostravi di voler alzare il livello e di rischiare anche di perdere qualche quattrino pur di perdere qualità; nel frattempo però la grande massa ha capito che Theo Parrish e Four Tet sono fighi, o fanno figo, ed ha iniziato a popolarne i set; ma nel frattempo Theo Parrish e Four Tet e chi li gestisce a monte ha capito l’andazzo, e ha decuplicato il loro cachet rispetto a cinque, sei anni fa, rendendo tutto quasi insensato. Non ce l’abbiamo con Theo Parrish e Four Tet nello specifico, per carità: è giusto per fare un esempio, chi ha i mezzi per capire ha capito cosa intendiamo).
Lasciamo che ad Ibiza ci vada il jet set. Perché questo vogliono, ora. Lasciamo che ci vadano i rampolli americani, i riccastri cinesi, le modelline, i faccendieri, i maghi della finanza, gli stilisti, i calciatori, le veline in cerca di marito
Allora la domanda è: perché accettate (ancora) di spendere inutilmente 20/25 euro per un cocktail andando ad Ibiza, o di pagare 70 euro per una serata in un club? Perché vi sentite furbi e/o vezzeggiati quando vi danno il braccialetto per entrare a prezzo ridotto? Ah beh, ok. Perché solo lì potete sentire certi nomi? Non più vero. Perché solo ad Ibiza puoi ballare in posti bellissimi? Falsissimo, anzi, spesso in Italia d’estate i posti sono altrettanto belli, più tipici, più ospitali. Perché Ibiza è magica? Beh: si stanno mettendo d’impegno per renderla sempre meno magica, sì, stanno mettendo parecchio d’impegno per cambiarla, per renderla definitivamente una macchina da soldi, dove tutto è costoso e tutti i prezzi dei servizi sono gonfiati proprio per principio.
Non ti senti stupido ad essere vittima di questo ingranaggio, ora innescatosi senza più remore? Non ti senti stupido a volerti per forza infilare lì, sulle Baleari, all’inseguimento di qualcosa che non esiste più e che oggi potresti trovare, più e meglio, proprio a casa tua?
Del resto, Ibiza la capiamo. Questa svolta verso il turismo da clubbing più denaroso, voltando sempre più le spalle alla componente “popolare” del clubbing estivo, può anche essere considerata una mossa strategicamente intelligente per non fare questa fine, vedi qui sotto, la fine di un posto incredibile che però non ha saputo – o voluto – cambiare, rinnovarsi, finendo col perpetuare un certo tipo di dinamiche che negli anni ’80 e soprattutto nei ’90 e primi 2000 hanno funzionato, poi hanno preso a perdere propulsione dinamica, ma a cui comunque si è rimasti attaccati perché rappresentavano una “certezza”, ciò che insomma ti faceva guadagnare di più rispetto all’investimento. E infatti, oggi lo scenario è:
Chi non cambia, muore. Oggi più di ieri. Anche il Circoloco, che resta musicalmente parlando la cosa più scintillante di Ibiza oggi fra quelle note&consolidate, lo ha capito ben bene: un tempo era il “refugium peccatorum” per gli irriducibili e pure un po’ tamarri, poi piano piano si è come dicevamo spolverato sempre di più il profilo e ora anzi è attentissimo a costruirsi un network tra la “gente che conta” nel mondo della moda contemporanea, un po’ perché gli piace, un po’ perché ci crede, un po’ perché sa che in questa maniera può sempre tenere alta l’aura di un posto, rendendolo così desiderabile anche quando, in realtà, l’esperienza-utente è abbastanza disperante in alta stagione (line up da paura, sì, ma pressati come sardine in pista, quando chiude il giardino esterno). Bravi loro.
Ma il bello è che siamo cambiati anche in Italia, mica solo il Circoloco. E lo siamo nel verso giusto. Arrivi a FAT FAT FAT, per dire di quello che ci aspetta il prossimo weekend, e il venerdì hai concerti nella piazza di un incantevole borgo medievale, il sabato e la domenica hai dj set degni di un Dekmantel con tra l’altro il tocco in più della particolarità dei molti back to back, nonché la possibilità di scoprire qualcosa che non conoscevi; il tutto bevendo bene, mangiando bene, attorniato da persone che sono lì consapevoli e felici, non intruppate ed esagitate. Cioè, davvero: ma chi te lo fa fare di spendere un capitale, farti spennare in alberghi messi così così (o in abitazioni sovraprezzate) ed essere conteso da PR sempre più disperati ed aggressivi per strada, il tutto per vivere un’esperienza che un tempo poteva essere unica ed irripetibile e oggi non lo è più, perché Solomun comunque te lo ritrovi in Italia ogni tre per due?
Noi non abbiamo bisogno di loro. Piuttosto, sarà Ibiza che ad un certo punto tornerà ad avere bisogno di noi
Lasciamo che ad Ibiza ci vada il jet set. Perché questo vogliono sempre più, ora. Queste sono le uniche persone a cui oggi è permessa una esperienza di qualità. Lasciamo che ci vadano i rampolli americani, i riccastri cinesi, le modelline, i faccendieri, i finanzieri che vogliono permettersi una settimana “libera e a contatto con la natura” prima di tornare ad affamare con cinismo il mondo per ingrossare i loro dividendi; lasciamo che ci vadano le ragazze stupide che cercano di maritarsi bene, lasciamo che ci vadano i calciatori perché all’improvviso l’hanno scoperta e sentono che il posto giusto per loro, o lasciamo che ci vadano gli spacciatori di ultima che confidano nel fatto che la gente ad Ibiza sente di “dover” drogarsi sennò non ha vissuto l’esperienza e si sente sfigata.
Noi non abbiamo bisogno di loro. Piuttosto, è Ibiza che ad un certo punto avrà bisogno di noi: quando si accorgerà che sta perdendo irrimediabilmente l’anima, e che l’unico modo per riaverla indietro sarà smettere di pensare solo ai modi migliori per massimizzare i profitti nati attorno alla sua aura.
Nel frattempo noi saremo a FAT FAT FAT, Nextones, Ortigia Sound System, Jazz:Re:Found; nel frattempo (ri)scopriremo festival come Komorebi, che anche se non giocano ancora nella Serie A dei grossi nomi e delle presenze a tre zeri intanto fanno un serio lavoro di scouting (vedi la scelta di affidare la chiusura a Marco Dionigi, uno dei dj italiani più sottovalutati di sempre, stilosissimo nelle sue scelte e nei suoi mixaggi tra il cupo, il wave, il classy, l’ipnotico) e mettono o rimettono in circolazione nomi, idee, stili, attitudini al momento estromesse dal grande gioco delle agenzie e del clubbing “organizzato”.
Noi saremo in tutti questi posti, sì. Felici. Proprio perché non vogliamo rinunciare allo spirito e all’attitudine che hanno reso Ibiza un posto da amare, un posto in cui esserci. Un posto in cui tornare. Quando le cose torneranno ad essere autentiche, ed inclusive.