Va avanti da qualche anno ma adesso il fenomeno sta diventando ossessionante: la voglia di passato e di trovare riparo in ciò che un tempo apparteneva alla banalità quotidiana. Le reunion di gruppi, la “resurrezione” di etichette, il recupero di generi musicali (ormai di house, techno ed electro “vintagistiche” si è perso il conto), di dischi di ogni tipologia stilistica (il mercato redditizio è proprio quello delle ristampe), di strumenti analogici che pochi anni fa non si vedeva l’ora di rimpiazzare con quelli digitali. In tanti (forse troppi?) preferiscono vivere ed interpretare il presente col costante desiderio di assomigliare o replicare, in modo più o meno evidente, il passato. Si stanno moltiplicando le incisioni su cassetta e le registrazioni effettuate con Revox, e capita pure che artisti, in preda ad una crisi di mezza età, decidano di tornare sulle proprie orme (come Fixmer e Umek, nelle recensioni che seguono) mettendo in atto una strategia per allungare il passato. Una garanzia che tuteli dalle incertezze di un futuro che non sembra più così favoloso come si prospettava? «I movimenti nostalgici possono servire a superare i momenti bui, mantenendosi fedeli alla linea in attesa di una nuova fase “ascendente”», scrive Simon Reynolds in “Retromania”. Se un giorno i cronoviaggi dovessero diventare realtà, sono certo che la coda più lunga ci sarà per tornare nel passato (magari provando una connessione con modem analogico a 56k) e non per farsi mandare a sbirciare il futuro, contrariamente a quanto si sognava una volta. Ecco l’ultimo Wunderkammer dell’anno.
Calimex Mental Implant Corp. – El Saber Del Arpavor (Nightwind Records)
È diventato arduo star dietro alle pubblicazioni di Danny Wolfers, innumerevoli e per giunta marchiate sempre con nuovi e fantasiosi pseudonimi che lo rendono meno rintracciabile. Una sfida a Marc Trauner o Uwe Schmidt? Chissà. Ora, trincerandosi dietro Calimex Mental Implant Corp., l’olandese mette insieme un buon numero di brani che sottolineano per l’ennesima volta la passione per i sintetizzatori d’annata, strumenti da molti destinati all’archiviazione ma che invece, proprio grazie a compositori come Wolfers, continuano a vivere generando risultati insperati. Qualche mese addietro, su SoundCloud, l’autore stesso si divertì a taggare questo disco con generi tipo ‘occult g-funk’ ed ‘alien hip hop’, ed effettivamente l’unico modo per definirlo è coniare nuove diciture, perché il risultato è talmente eterogeneo da sfuggire ai canonici incasellamenti stilistici. Dentro ci sono beat ballabili (“Calimex Institute”, “Son Of Shinobi” – che avrebbe potuto rappresentare il ritorno dei Macho Cat Garage -, “Carnival Of Souls”) ma anche dilatazioni downtempo incrociate all’ambient (“Paracruise Waffles”, “Like A Futuristic Science Building”, “Dominion Network”), combinazioni dark-funk (“Jean Luc Picards Cucumber Station”, “The Heat Of The Nite (Programming)”) e declivi di spettrale hip hop electroidizzato (“Ethiopian Ski Dream”, “Reality Is Possible”, “Heladero Del Espacio”, “A Wolf In The Desert”). In “UFO Club 2015”, in particolare, sembra celarsi qualche citazione di “Africa” dei Toto, brano che Wolfers eseguiva anni addietro nei suoi live. L’album viene pubblicato su cassetta, supporto perfettamente in linea con l’estetica musicale legoweltiana, ma per non deludere i numerosi fan tutto è stato riversato anche su doppio vinile.
Fixmer – Issue N. 8 (Jealous God)
Sono stato uno sfegatato supporter del Fixmer che, a fine anni Novanta, riportò in vita l’EBM interfacciandola con la techno (e che lui stesso ribattezzò elektronik tek violence). Il mio entusiasmo si spense quando il transalpino iniziò a darsi a quel minimalismo scuro che lo ha livellato a decine di altri produttori. Questo Jealous God però mischia le carte nel mazzo: l’artista pare intenzionato a riprendere il discorso lasciato in sospeso nel 2008. Tre i brani che mi inducono a parlare nuovamente di lui, con le tipiche nervature metalliche di “Don’t You See” (una nuova “Electric Vision”?), gli affondi di “The Taut Wire” e le distorsioni di “Suffocate”. Certo, non c’è una bomba tipo “Body Pressure” o “She Said Destroy” e nemmeno qualcosa paragonabile per potenza ai trascorsi con Douglas McCarthy dei Nitzer Ebb, però non mi dispiace affatto riascoltare Fixmer così come si era presentato ad inizio carriera. Si tratta forse di brani composti ai tempi e rimasti nel cassetto? Non si sa e non importa. Ps: al 12″ è allegato il mix cd di Sal Mineo in cui si ritrovano gemme industrial come “Same Old Madness” dei Ministry, “Als Wär’s Das Letzte Mal” dei D.A.F. ed “Hammer House” dei CTI (alias Chris & Cosey).
Kelton Prima – Reactivated (Mathematics Recordings)
Transitato su etichette di tutto rispetto come Disco Praline, Tonite Records e l’italiana Pizzico, Kelton Prima riappare, dopo un periodo di silenzio, sulla Mathematics Recordings di Jamal Moss. Ad animare la musica del francese è ancora il binomio disco-house che domina “Ritalo F”, un flessuoso interscambio tra elementi che strizzano l’occhio al passato ma trattato in modo da farlo sembrare meno passato di quel che è davvero. E “Prima Theme”? Colpisce subito il disegno di basso che fa tanto “Thriller” di Michael Jackson, ma gli innesti disco funk che seguono non sono affatto da considerare elementi secondari. La voglia di recuperare il funk (e a tratti il boogie) si riscontra ancor meglio in “Re-Activated”, ri-attivazione fedele ed appassionata di vecchie intuizioni avvalorata da una sezione vocale ed inserti vocoderizzati. Si sente profumo di retro disco anche in “Ecstasy Au Pa”, dove l’artista parigino intreccia accenni acid a voci soul e movenze deep house. Un Malcolm Dakeyo in splendida forma.
Luke Eargoggle – Train To Illusion EP (Börft Records)
Ci sono artisti che riescono a caratterizzare la propria musica in modo inequivocabile, dotandola di una sorta di tag che ne facilita l’identificazione. È il caso dello svedese Luke Eargoggle, di diritto tra i veterani dell’electro nordica, che per anni ha ricavato suoni e beat da datati equipment, convogliandoli su etichette come Bunker, Kondi, Aerobic Audio, Abstract Forms e naturalmente sulla sua Stilleben. Con questo Börft però qualcosa inizia a cambiare: “Optical Illusion” è techno inacidita che marcia sui 4/4 e “Frau Bowie” prosegue la traiettoria irrigidendo ulteriormente la gabbia ritmica su cui viene piazzato, via via, un rotolio di suoni granulosi. Più canonicamente eargoggliano è “Lex 2001”, a base di taglienti sincopi e basso geometricamente incastrato in suoni digitali sci-fi. A fare da raccordo tra i due volti dell’artista di Göteborg è “Deep Sea Reminder”, da un lato aggrappato alle fantasticherie electroidi, dall’altro alla più rassicurante misura quaternaria a cui Eargoggle ricorre saltuariamente durante la carriera discografica e in modo più evidente nei progetti Catnip e Monkeyshop, in compagnia rispettivamente di Legowelt e Rutherford.
Charles Manier – American Manier (Bopside)
Tadd Mullinix è tra quelli che negli ultimi quindici anni non hanno mai smesso di darsi da fare. Col glitch e con l’idm firmato con le coordinate anagrafiche, con l’hip hop più astratto edito come Dabrye (ricordate “Hyped-Up Plus Tax” finita nel commercial della Motorola una decina di anni fa?), con la più virulenta delle resurrezioni jackin marchiata James T. Cotton, Mullinix trova sempre e comunque il modo per farsi notare. Charles Manier è la valvola di sfogo per gli istinti legati ad ebm e darkwave, nuovamente raccolti a distanza di due anni dal primo album edito dalla Nation di Traxx. A questo giro però Mullinix opta per l’autoproduzione, giacché il doppio vinile esce sulla propria Bopside. La carrellata dei brani, spesso in modalità beatless, offre numerosi ganci con l’industrial più (o)scuro (“The Chop Stop”, “Bryozoa”, “Deatomized”, “Reciprocal Altruism”). Altre propulsioni sono a favore di una techno destrutturata (“Auctoritas”, “Unsubscribe”), di un’electro nerastra (“Living Youth”), e di sussulti irregolari che rimandano al citato Dabrye (“Stag Error”, “CS510X”). Non manca neanche un’alquanto lugubre dark ambient, “Under The Boris Zenker Building”, e il ripasso darkwave con “Sift Throught Art Collecting People”, che vide luce già nel 2013 su Kode con un 12″ limitato alle 200 copie. Se recentemente avete apprezzato “A Gathering Together” di Ron Morelli o “Coherent Abstractions” di ADMX-71, questo è il disco che fa per voi.
Miguel Campbell – Night Drive Without You (Outcross Records)
Sebbene gli impegni da DJ gli impediscano di dedicarsi in toto alla produzione, Campbell riesce a completare il secondo album, a tre anni da “Back In Flight School”. Il full, composto da 13 brani (a cui si sommano un intro ed un interludio), ricalca prevedibilmente il vissuto dell’artista, e sarebbe stato utopico non pensare a tentazioni pop visto il successo raccolto con “Something Special”, anche se adesso non c’è la Hot Creations come supporter e questo potrebbe rendere le cose più difficili. Il canonico modus operandi della formula follow-up indicherebbe “Free Falling” o “Run With Me”, entrambi con la voce di Beccs Lott e già pubblicati la scorsa estate in formato singolo, o “Interfunk Music”, cantato da Benjamin Diamond, proprio quello di “Little Scare”, “In Your Arms” e “Music Sounds Better With You” degli Stardust. Campbell si dedica anima e corpo alla nu disco ma ricavando poco e niente che possa distinguersi da quanto già detto e fatto in passato. Le tessiture di brani come “Melody Of Love”, “Spell On Me” e “Collision” risultano acerbe ed un po’ incolori, il ricamo tra disco e funk con vampate daftpunkiane tende a dominare interamente “Night Games”, “The Music” e “Yes I Do”. Bassorilievi deep house incrociati a svirgolate funkeggianti svettano su “Outrun” (solo omonimo del pezzo di Thomas Bangalter uscito venti anni fa), ma un contributo vocale avrebbe probabilmente garantito un miglior risultato. In “Gold Rush” e “The Night Life” tornano rispettivamente Diamond e la Lott: il primo tanto ricorda “Get Down Saturday Night” di Oliver Cheatham (già riesumato circa quindici anni or sono da Junior Jack), il secondo macina nu disco a bassa velocità di crociera, sulla falsariga di “Ocean Drive” di Duke Dumont. Chiude tutto “Light & Darkness”, con pianate synth pop in stile Europe e con voce “metallizzata” ma non abbastanza incisiva. Campbell non pare completamente affamato di successo pop (non ci sono solo ispirazioni “copypasted”) ma di sicuro non gli dispiacerebbe ripetere l’exploit del 2011 che gli garantirebbe altri anni di DJing per il mondo. “Night Drive Without You” raggiunge la sufficienza ma non la supera di molto: diverse tessere del puzzle pare siano state frettolosamente assemblate tra una gig e l’altra, forse sarebbe stato opportuno elaborarle ulteriormente per scavalcare la solita e già sentita ritualità nu disco a cui l’artista originario di Leeds ci ha abbondantemente abituato.
Robotalco – Ulawun EP (GetWet)
Sebastiano Urciuoli dei Club Silencio in versione solista si fa chiamare Robotalco e si piazza presso le latitudini di una house su cui insistono elementi funk e disco. Fondamentalmente l’EP gira su atmosfere baleariche e deepeggianti (“Flying High”, “Pineapple’s Groove”, “Neon K”, “Sunx”), che tendono a smorzare l’apparato del groove nella title track a favore di pad e melodie dolciastre. In “Moussette” ed “Heavy Metal Of Funk” vengono messe in risalto le rotondità del basso e gli influssi di house concepita in altri tempi. “Get Wet” e “Mango Mango” sono le mie preferite: la prima abbracciata al downtempo, la seconda seduta su sbilanciamenti funky abbinati ad un’ottima ragnatela ritmica di estrazione vintage. È vintage, del resto, pure il supporto su cui tutto è inciso: la vecchia (ed indimenticata) cassetta, limitata ai soli 50 esemplari.
Zeta Reticula – Roko Mal EP (1605 Music Therapy)
Per Uroš Umek gli ultimi anni sono stati quelli dell’affermazione su scala planetaria ma anche di una progressiva e costante parabola discendente dell’apporto creativo in termini discografici. Decine di pubblicazioni dozzinali e pensate per un pubblico generalista (su tutte “Burnfire”, in coppia con Jay Colin, su Spinnin’ Records) lo hanno irrimediabilmente allontanato da un certo circuito ma nella scorsa primavera accade l’imprevedibile: lo sloveno, forse accortosi di una frattura troppo incisiva con le origini, riporta in vita uno dei suoi alias, Zeta Reticula, inutilizzato dal 2003. Insieme al moniker il DJ riesuma pure la vena ispirativa legata ai movimenti breakkati dell’electro, che pareva ormai definitivamente morta e sepolta. A “The Zeta Reticuli Incident” e “Maqaram EP” segue così “Roko Mal”, terzo extended play affine a quel segmento ai tempi affidato alla Electrix Records di Billy Nasty (e a cui si accoda, giusto nelle ultime ore, un quarto, “Portrait Of A Peculiar Cat EP”). Ed ecco sfilare referenze kraftwerkiane (“Ra Demuss”), ritmi rigorosamente spezzati dalle sincopi (“Roko Mal”, “Antaqua”) e soluzioni armoniche rotheriane (“Ka Kalin”). Senza infamia e senza lode: c’è electro dignitosa ma che non eccelle o si eleva dai classici standard. Pure Umek dimostra così di non essere immune alla nostalgia, anche se il suo “back to the past” risulta provvidenziale perché attenua quella inesorabile perdita di personalità che ha fortemente intristito e deluso chi lo seguiva sulle varie Consumer Recreation, X-Sub, Planet Rhythm e Primate.
Christian Lappalainen – Acid På Svenska (We Manage With Love)
Idea simpatica quella balenata a Christian Lappalainen: reinterpretare tradizionali brani folk svedesi solo ed unicamente con la TB-303. Provate quindi ad immaginare la tipica melanconia nordica eseguita con una delle più imitate e ricercate macchine della Roland. In dodici brani dai titoli decisamente impronunciabili per noi italiani, Lappalainen sfoggia l’abilità nel programmare lo strumento senza tempo che Tadao Kikumoto ideò a supporto di quelle band che non potevano permettersi un bassista. Gli eventi poi hanno conferito un ruolo ben diverso a quel prodotto rimasto sul mercato dal 1982 al 1984 e di cui, si presume, ne siano stati fabbricati non oltre 10.000 esemplari. Curiosi di ascoltare i brani originali? Cercate “Jazz På Svenska” di Jan Johansson, del 1964.
Fraktus – Welcome To The Internet (Staatsakt)
Sono trascorsi già tre anni da quando il trio comedy degli Studio Braun si è ribattezzato Fraktus, in occasione dell’uscita del mockumentary Fraktus – Das Letzte Kapitel Der Musikgeschichte, che rivedeva la storia della techno portando alla ribalta una (fittizia) band tedesca, i Fraktus per l’appunto, a cui secondo più autorevoli fonti andrebbe attribuito il merito di precursori del genere. Sebbene tutto fosse ironicamente falso, la pellicola ha stimolato un dibattito importante in merito alla geolocalizzazione della nascita di un genere multiverso come la techno. I tre di Amburgo si ripresentano ora con un secondo album dal titolo che pare giunto con circa venti anni di ritardo. Ma è uno sberleffo e palesemente ironico, e guardando il video della title track ci si rende subito conto del contesto in cui i tre di Amburgo operano. Improbabili viaggiatori intergalattici a bordo di un’astronave annunciano una rivoluzione quando questa appartiene già alla routine quotidiana: la visione smonta letteralmente l’idea alimentata dai classici romanzi e fumetti di fantascienza, secondo cui gli alieni sarebbero tecnologicamente molto più avanti di noi terrestri e potrebbero portare sul nostro pianeta soluzioni a drammatici problemi come inquinamento, carestie e malattie incurabili. A meno che quella inscenata dei Fraktus sia una nuova burla che gioca ancora sulla collocazione temporale degli eventi, e tutto quindi andrebbe retrodatato per poter essere apprezzato e riconosciuto come autentica visione del futuro. Musicalmente il disco, in apparenza, non ha mire particolarmente ambiziose ma la leggerezza della forma è retta da una cura sonora tutt’altro che dozzinale. Dentro c’è scrosciante electro pop quasi interamente in lingua tedesca che fa tanto l’effetto schlager (Jens Friebe, Jeans Team, Andreas Dorau, Stereo Total), talvolta scanzonata (“Saugetücher”, “Maler Und Lackierer”, scandita da un inno monosillabo come avvenne in “Affe Sucht Liebe”, “Schuhe Aus Glas”) e con frequenti riferimenti al synth pop di trent’anni or sono. Suoni più algidi e kraftwerkiani si ritrovano in “Musik Aus Strom”, mentre i bassi deformati prendono il sopravvento in “Mary Poppins”, che ricorda certe cose delle Chicks On Speed. Ad “Originals”, che invece fa l’occhiolino ai Quasimodo Jones, segue il recupero di elettronica ottenuta con strumenti d’altri tempi in era new wave (“Jeder Gegen Jeden”), atmosfere ludiche à la Jan Turkenburg (“Puppets (Cool Wie New York)”), sprint rockeggianti un pelo Blondie inspired (“White Dinner”), e persino una ballata lenta nata come semi parodia di “Within” dei Daft Punk (“Freunde Sind Friends”). A produrre è Marco Haas alias T.Raumschmiere, e si sente: in molti punti pare proprio di avere a che fare con una delle pubblicazioni Shitkatapult con equa ripartizione tra electro e punk (cercate qualcosa di Das Bierbeben, Warren Suicide, dei citati Quasimodo Jones e dello stesso T.Raumschmiere). Mi piacerebbe veder sincronizzati i trenini che animeranno la notte del 31 dicembre con uno dei brani dei Fraktus, mentre Tony Humphries o Carl Cox fanno stage diving. Immaginare cose impossibili, alla fine, non costa nulla.