Secondo i meteorologi, novembre dovrebbe essere il mese più piovoso dell’anno ma in questi primi quindici giorni un anticiclone subtropicale, con la sua vasta e robusta cupola di alta pressione, ci ha regalato inaspettate giornate di sole e di piacevole tepore. L’anomalia atmosferica è stata però controbilanciata dalla pioggia di musica: tanto il materiale interessante che ho adocchiato per il nuovo Wunderkammer, dalle schegge skweee di Randy Barracuda alle retro-atmosfere di David Mitchell (affiancato da DMX Krew) e Vincenzo Salvia, dallo psycho funk di Dexter sulla risvegliata Klakson alle incredibili rarità offerte dalla Private Records nel quarto volume di “Let’s Go Into Space”, senza dimenticare i rintocchi raw di IDGA, le atmosfere da inferno dantesco di Johannes Heil e i vocoder del sommo Egyptian Lover, che mi concede pure alcune dichiarazioni ovviamente incastonate nella recensione.
David Mitchell – Magic Spell (Electro Avenue)
Appena duecento le copie in formato 7″ e colorate di rosa per il brano del debuttante David Mitchell, cantante, classe ’70, nato ad Huddersfield, nel West Yorkshire. A produrre, invece, è Edward Upton, meglio noto come DMX Krew, che snocciola il meglio del repertorio sonoro (affrontato innumerevoli volte nel corso degli anni) legato ad electrofunk, boogie ed 80s pop, ricorrendo pure alla voce femminile di Jo Apps e alla chitarra di David Rainger. «”Magic Spell” era già pronto ma poi un amico comune, Lloyd Harvey (alias Lloyd Da Zoid, fondatore di Electro Avenue, ndr), mi ha messo in contatto con Ed e così si è concretizzata la possibilità di cantarlo», spiega Mitchell. Ed aggiunge: «Vengo da una famiglia di cantanti e ballerini, tra i miei artisti preferiti ci sono Michael Jackson, Luther Vandross, Gwen Guthrie ma soprattutto Bernard Jackson, lead vocalist dei Surface». Il prolifico Upton (a proposito, concedete un ascolto al terzo volume di “Synth Funk”, su Abstract Forms, al “RAM Expansion”, su Last Known Trajectory, e all’EP su Zodiac 44) dimostra di essere perfettamente in grado di ricreare atmosfere soul/funk (con qualche occhiata allo stile Salsoul (“Falling In Love” e “When Your X Wants You Back” dei citati Surface sono un paragone perfetto), bilanciando gli elementi con straordinaria perizia e regalando all’ascoltatore un vero viaggio a ritroso nel tempo di almeno trent’anni.
Vincenzo Salvia – The Volkswagen Of Death (Not On Label)
È un buon momento per il potentino Vincenzo Salvia, di diritto tra gli italiani che abbracciano con più criterio e consapevolezza gli stilemi della synthwave music. Ispirato dal recente scandalo che ha travolto la casa automobilistica di Wolfsburg, Salvia orchestra sapientemente melodie ed armonie evocate dalla synth music degli anni Ottanta, specialmente quella applicata in cinematografia (Moroder, Faltermeyer, Vangelis). La tavolozza dei suoni di “The Awakening Of The 1982 Golf GTD” profuma tanto di Kavinsky e il raddoppio ritmico, che squarcia la stesura in più parti, rinforza ulteriormente il gancio con le pellicole di un passato mai trascorso del tutto. Altrettanto evocativa è “Dieselgate” in cui si cela un retrogusto space-italo, per anni riportato in auge quasi esclusivamente da artisti localizzati tra Francia, Germania ed Olanda. Tocco più orchestrale e melanconico in “Passat Murder” col basso rotolante e struggenti linee melodiche che lo fanno assomigliare ad un Savage attualizzato per il pubblico del nuovo millennio. Mentre Volkswagen perde punti in borsa Salvia continua a far salire le proprie quotazioni in ambito musicale.
Randy Barracuda – Akephalos (Flogsta Danshall)
Avete mai sentito parlare di skweee? Provate ad immaginare il pfunk dei Parliament di George Clinton eseguito solo con strumenti elettronici tra cui il SID del Commodore 64 (chip con cui compositori come Jeroen Tel, Rob Hubbard, Martin Galway e Chris Hülsbeck realizzarono epiche soundtrack), poi “frantumatelo”, aggiungete dei beat sincopati e shakerate per bene il tutto. Il risultato è musica skweee. Uno dei più accreditati esponenti di tale filone è Perttu Eino Häkkinen, componente di act come V.U.L.V.A. ed Imatran Voima che nel decennio passato hanno fatto palpitare il cuore degli appassionati più radicali di electro e miami bass. Circa dieci anni fa, reinventandosi come Randy Barracuda, il finlandese comincia a divulgare il verbo del funk sintetico e cibernetizzato nato in Scandinavia, supportandolo pure con un’etichetta, la Harmönia, gestita col connazionale Mesak. “Akephalos” è il suo terzo album (il secondo per la Flogsta Danshall di Frans Carlqvist) e contiene sei brani che inglobano tutti gli elementi base dello skweee (nome coniato da Daniel Savio), in cui schegge impazzite di micro suoni si conficcano come spine in ritmi dalle costruzioni electro/hip hop, mantenendo l’andatura tipica del funk e dell’r’n’b. Barracuda rallenta abbondantemente le pulsazioni in “Akephalos II” e “Lux II”, per poi recuperare tessere di chiptune ad 8 bit (“Mayonnaise Sutra”) ed innervosire al massimo le linee di sintetizzatore (“Rotterdam”), suscitando persino un filo di smarrimento perché vengono meno quegli elementi che fanno inquadrare subito il genere di riferimento. Le svirgolate cyber-funky tornano a farsi sentire in “Elektrotheologie” mentre “Mongoloid”, il pezzo forte dell’intero lavoro e attorno al quale pare ruotare il concept mostrato in copertina, ripropone il classico dei Devo riletto con un fantastico talkbox.
Dexter – Troubles (Klakson)
Il letargo della Klakson sembrava destinato a perdurare ma a ben cinque anni dall’ultima pubblicazione rieccola attiva, per giunta nella stagione antitetica ai risvegli, l’autunno. Il rilancio dell’etichetta di Steffi e Dexter avviene per mano di quest’ultimo, agguerrito guerriero di una electro in costante ibridazione col funk e la techno (senti “I Don’t Care”, “Intruder” e “Raw!”, i suoi pezzi-capisaldi). Le quattro tracce del 12″ riepilogano i tratti distintivi della musica dell’artista olandese, con l’ondeggiamento funky incastrato nel vocoder (“Troubles”) ma pure in versione housy 4/4 accompagnato da velature melodiche (“Flashback”). Poi c’è “Twilight Life”, tra spezzettamenti electro, linearità techno e briose synth line in stile “D-Funked” (2005), e la classicamente dexteriana “Patternmaster”, che ci fa riassaporare integralmente il layout audio di Remy Verheijen, dove il trademark di visioni psycho funk si somma a strascichi di suono elettrificato, quasi drexciyano, ma con meno “acqua” e più “terra”. Bentornata Klakson.
Various – Let’s Go Into Space IV (Private Records)
Quarto episodio per la compilation avviata nel 2012 dalla Private per riesumare gemme nascoste e dimenticate del passato, vicine al mondo della disco e del synth pop. Ben otto i brani selezionati con straordinaria accuratezza, che fotografano un periodo ben preciso della musica da ballo, quello in cui gli strumenti tradizionali iniziarono a convivere con gli elettronici, generando imprevisti incroci che avrebbero poi ispirato un’intera generazione. Si comincia con la disco ritmicamente marcata di “World X” di Angella Dean, prodotta in Italia nel 1979 da Mike Logan e Detto Mariano ed adorata in Francia dove pare raggiunse il vertice della classifica di vendita. Sul lato b di quel vinile era incisa la più sensuale “Now And Forever”, qualche anno più tardi (1985) utilizzata nella colonna sonora del film “È arrivato mio fratello” con Renato Pozzetto, e diventata molto più nota, almeno in Italia. Si prosegue con “Blue Nights In Granada” di Carl Barok, brano composto nel 1977 che rilegge in chiave cosmic disco il tema di “Giochi Proibiti”. La versione in oggetto reca la firma di Dieter Kolb e Frithjof Krepp che, forse, inventarono il nome Carl Barok per evitare di passare per un progetto da studio. Poi c’è la ridente “Club Lido” di Pan’s People, del ’79, scritta da Bob Mitchell e Steve Coe, una sorta di Bobby Orlando ante litteram, e “Butterfly Dance” di Disco Connection, del 1978, con un piede nel funk ed una mano sui sintetizzatori analogici. La galleria di rarità della Private non conosce soste e prosegue: “Burn The Witch” di Love Spirit, composta nel 1980 da Giorgio Sgarbi e Gisela Sgarbi (attivi in Germania al seguito di Frank Farian e varie multinazionali), “King Kong” di The Primates, altro misconosciuto nome prodotto da Saint-Preux in Francia nel 1979 assemblando i resti del progressive rock con fiondate di funk e disco, e “My Blue Bird” di Rendez-Vous, singolare mescolanza tra vocalizzi 60s e sinuoso bassline della disco sintetica. Si chiude in bellezza con un inedito, “Space Symphony” di Schaltkreis Wassermann, ouverture spaziale di romanticherie analogicamente sintetizzate, composta ai tempi di “Psychotron” (1982, ristampato da Private esattamente trent’anni dopo) ma rimasta nel cassetto. Altri brani registrati in quel periodo ma mai dati alle stampe saranno pubblicati a gennaio 2016 nell’album “SKW”, naturalmente su Private. La preziosa carrellata di rarità è racchiusa, come ormai tradizione vuole, in una copertina circolare di krautrockiana memoria (vedi “Birth Control” dei Birth Control). 500 le copie disponibili di cui 250 su vinile blu, giusto per rimarcare ulteriormente il concetto di rarità su cui l’etichetta di Janis Nowacki ha fondato la sua esistenza.
IDGA – No Pictures / No Glitter (51 Beats)
Il solco in cui scava il produttore di Padova è quello di una techno spoglia, volutamente rozza, abbozzata nelle sue ruvide forme ed assemblata in modo minimalista. “No Pictures” si muove tra lisergiche atmosfere tenute vive da un cerchio metallico di cassa dentro cui, qua e là, affiorano hi-hat e clap. “Glitter” ne sviluppa ulteriormente il senso, attraverso elementi simili e mantenendo inalterato quello stato di ipnosi catalettica derivato da spiegazzature di suoni sintetici. Ad allineare i beat poi ci pensa Lucretio, in un remix colorito dall’uso del distorsore che ne accresce il retrogusto raw e in cui ben figura qualche inserto di sampledelia house.
The Egyptian Lover – 1984 (Egyptian Empire Records)
Erano anni che se ne parlava ma finalmente, dopo mille peripezie, il nuovo album del faraone dell’electro è pronto. Si intitola “1984” perché, come spiega lo stesso autore, «è stato registrato esattamente nel medesimo modo del mio primo album, “On The Nile”, pubblicato nel 1984. Mi sono recato nello stesso studio per adoperare gli stessi riverberi, gates, delay, flangers, mixer e casse. Ho persino usato lo stesso equipment di allora, quindi le Roland Jupiter-8, TR-808, SVC-350, SH-101, poi il Matrix 12 di Oberheim e qualche altro “giocattolo” analogico». In dodici tracce Broussard ripercorre le orme di quel che avvenne oltre un trentennio addietro, mettendo chiaramente in evidenza i classici tratti caratteristici che lo hanno reso uno dei principali istigatori dell’hip hop robotico. Si ritrovano pertanto i laser allungati (“Into The Future”), i vocalizzi ansimanti à la “Tour De France” (“Dance 2 My Beat”, “Poppers Anthem”) e valanghe di voci vocoderizzate sovrapposte a melodie orientaleggianti (“Freaky Deaky Machine”, “Perfection”). Ben figura la già nota “P.E.L.F.”, prodotta con gli Hardfloor e Thomas Werner (aka Dynamik Bass System, un asso dell’electrofunk del nuovo millennio), e si fa notare “Zombies”, con le voci incupite e gli scratch a rammentare (ed eternare) la modalità iconica del DJing 1.0. «Iniziai a lavorare a questo disco nel 2006 ma proprio quando era quasi ultimato un problema tecnico al computer mi fece perdere irrimediabilmente tutte le tracce. Ho iniziato a registrare di nuovo tra 2009 e 2010 ma non avevo voglia di realizzare gli stessi pezzi, desideravo fare di meglio. L’obiettivo era scrivere almeno otto brani ma l’ispirazione è stata forte e ne ho realizzati molti di più, tanto da ritrovarmi poi in difficoltà su quali scegliere. Alla fine ne ho selezionati dodici ma anticipo che altrettanti faranno parte della tracklist del secondo volume di “1984” , previsto per il 2016. Un brano sarà firmato in coppia coi Newcleus e sicuramente emozionerà non poco i fan. Sono certo che entrambi i volumi di “1984” passeranno alla storia come i miei migliori lavori. Sono davvero entusiasta anche per la caldissima reazione da parte del pubblico: oltre al doppio vinile e al cd, ho stampato anche la cassetta, formato che, incredibilmente, sta funzionando alla grande». Il tema di “1984” resta (prevedibilmente) uno, declinato a più riprese ma con tentativi nulli di evolvere la materia entro nuove direzioni. Egyptian Lover però è stratosfericamente electro, puritano ai massimi livelli, uno degli iniziatori, inattaccabile sotto il profilo dell’integrità stilistica, quindi va bene ugualmente, soprattutto per gli amanti dell’old school electro, che non può essere che questa. «I fan di vecchia data lo adoreranno mentre i più giovani potrebbero essere invogliati a cercare (e comprare) i brani del mio repertorio. C’è davvero un mucchio di roba da ascoltare!» conclude. “1984” guarda verso un passato ai tempi considerato futuro, poi trascorso ed ora riconvertito in passato/futuro. Insomma, un arzigogolato paradosso temporale che marchia a fuoco il “watermark musicale” dell’artista losangelino. Ps: se siete degli irriducibili collezionisti (come chi scrive) non perdete la ristampa di “Egypt Egypt” edita dalla Stones Throw: il disco, bianco, è di forma triangolare e la copertina si piega, a mo’ di origami, per formare una piramide.
Johannes Heil – The Black Light (Exile)
A cinque anni dal non proprio riuscito “Loving” (su Cocoon Recordings), Johannes Heil incide un nuovo album, questa volta destinato alla Exile fondata e gestita insieme a Markus Suckut. Partiamo dal titolo: la “luce nera” è un motivo particolarmente ricorrente nella techno degli ultimi anni anche se, ad onor del vero, Heil aveva stretto un’alleanza coi colori scuri sin dai suoi primi lavori su Kanzleramt, nella seconda metà dei Novanta. La tematica del “nero” viene declinata nei dieci atti di “Scene”, evidenziando man mano vari dettagli. L’avvio promette bene, col dark ambient esoterico, tra horror e thriller (“Scene One”) e coi rintocchi irregolari della cassa sullo sfondo tagliato da atmosfere plumbee (“Scene Two”). Quando suona “Scene Three” però si fanno avanti avvisaglie di loopismi un po’ generici, marcati stretti da fitte ombre. L’energia pare sopita e tenuta a bada da forze esterne in “Scene Four”, che sfiora la noia. Heil riprende verve con “Scene Five”, riacquistando la stessa tensione di rocciosi brani della sua discografia (“Isis & Osiris”, “Paranoid Dancer”) ma rielaborandola in chiave millsiana, e così l’essenzialità di Detroit prende il sopravvento sulla techno teutonica. Il percorso va avanti a fasi alterne, con esercizi formali di incastri (“Scene Six”, “Scene Seven”), rievocazioni di techno novantesca (“Scene Eight”) e tagliente minimalismo nascosto dietro nebbiose cortine fumogene (“Scene Nine”). La chiusura è simile all’apertura e mette il naso nelle atmosfere da inferno dantesco per cui Heil viene spesso ricordato. Un disco passabile ma non scorgendo nuovi input è difficile pensare che possa rimanere tra i lavori più convincenti del tedesco che pare ripetere il suo passato ma con meno slanci e meno temerarietà.