Belli da vedere, belli da sentire, gli Yombe (Alfredo Maddaluno e Carola Moccia) sono uno di quei nomi che a breve ci invidieranno anche all’estero – ci sono tutte le potenzialità per questo. Forti di un connubio perfetto di immagini e suoni, hanno creato non poche aspettative tanto per il disco in uscita quanto per le date che lo accompagneranno. Il 22 novembre li vedremo sul palco di Linecheck, mentre dovremo aspettare fino al 24 per l’uscita di “GOOOD”, su Carosello Records. Il nuovo lavoro è una raccolta di canzoni essenziali ma forti e di appunti talvolta solo abbozzati: noi ce lo siamo fatto raccontare insieme a tanto altro, tra Napoli, l’amore, la voglia di estero e la loro vita di coppia.
Nel comunicato stampa che presenta il nuovo lavoro mi ha colpito molto che veniate definiti un duo “minimal pop”. Voi vi definireste veramente “minimal pop”?
Alfredo: Di base noi non ci definiremmo. Sai bene che in questo ambiente certe cose vengono dette e scritte per dare un minimo di orientamento a chi fa questo lavoro, per indirizzarlo più o meno verso quelli che sono i temi della band. Credo che per “minimal pop” si intenda la nostra volontà di lavorare sempre più sull’idea togliere piuttosto che su quella di aggiungere, perché in linea di massima i vuoti e le pause ci hanno sempre interessato. Cerchiamo, con pochissimi ingredienti, di tenere su un pezzo senza ultra-arrangiare e ultra-scrivere.
Carola: Anche da un punto di vista lirico sto provando a fare uno sforzo di sintesi, per cercare di regalare immagini molto importanti con parole molto semplici. Il genere che piace a me ha testi molto profondi dove si dice, come quantità di parole, davvero poco.
Anche perché credo sia molto più difficile togliere che aggiungere e ultimamente nel vostro campo è quasi una gara a creare sempre più sovrastrutture.
A: Sì. Quando togli viene fuori l’ossatura della canzone e se riesce a stare in piedi con pochissimi ingredienti vuol dire che funziona. Quello che proviamo a fare noi è dare un vestito alla canzone senza fare, come dicono gli stylist a Milano, “overdressing”.
C: Cerchiamo di lasciarlo non nudo ma – diciamo – trasparente, senza caricarlo troppo. Ci piace introdurre strumenti magari un po’ più acustici, che spostino sicuramente l’asticella verso un certo minimalismo.
Parliamo di “GOOOD”. Quando l’ho sentito ho pensato che sarebbe perfetto per Young Turks, siete riusciti ad avere un respiro ancora più internazionale rispetto al precedente lavoro, c’è molto poco di italiano a livello di suoni in questo disco.
C: Di certo i nostri mezzi sono assolutamente molto inferiori rispetto ad alcuni artisti ai quali ci ispiriamo. Devo dire la verità: crediamo di aver fatto un lavoro davvero notevole. Possiamo avere molti difetti, ma cerchiamo di essere molto sinceri musicalmente e forse è questo che ci rende puramente internazionali. Credo che sia questa estrema sincerità che si riflette all’interno del disco ad avere un’aspirazione internazionale. Anche la scelta di cantare in inglese è motivata dal fatto di credere ad una qualche possibilità “internazionale”. In un mondo così globalizzato vale la pena di provare a trarne il meglio e il fatto di cantare in inglese ti permette di arrivare a molte più persone. Premesso che noi amiamo l’italiano, soprattutto io, ma siamo consapevoli che l’inglese arriva a molte più persone.
A: Io in realtà spero si senta sempre che siamo italiani, anche se i nostri riferimenti sono ovviamente oltremanica. Mi interessa sicuramente venire fuori con un progetto che ti faccia dire “Figo, sembra arrivi da Young Turks”, però vorrei che chi ascolta la nostra musica riuscisse ad intercettare un po’ di mediterraneo. Credo che in alcune sfumature della voce di Carola, o in alcune melodie, si possa intravedere questa sensazione.
C: Essere internazionali non vuol dire per forza sembrare inglesi.
In effetti mi sono chiesto se vi facesse piacere quando vi dicono che non sembrate un duo italiano, che sembrate più inglesi.
C: Io amo l’Inghilterra, Londra in particolare, per cui ingenuamente ti risponderei “Sì! Mi fa piacere”. Ci ho vissuto, ho delle reminiscenze addirittura nell’accento londinese. Siamo contenti perché vuol dire che siamo riusciti a fare “nostra” una cultura che amiamo. Ci è capitato che ci chiamassero delle radio inglesi chiedendoci di passare da loro a Londra, in sede, pensando fossimo di lì, e noi non potevamo andare perché siamo di Napoli e il viaggio è lungo. Sono contenta che almeno a livello qualitativo, nonostante mezzi ovviamente ridotti, ci sia una vicinanza a un posto che per il nostro genere è il massimo. Mi farebbe ancora più piacere sentir dire: “Quelli sono quelli di Napoli che cantano bene in inglese“.
Comunque Napoli ha sempre avuto delle fortissime analogie con Londra e il Regno Unito. Penso per esempio alle collaborazioni tra Massive Attack e Almamegretta. Forse c’è qualche analogia da qualche parte, magari nella lingua…
A: Mi fa molto piacere che tu abbia colto questa cosa. Io lo penso da sempre, nel senso che vedo una forte connessione tra le due città, non tanto per un fatto artistico perché, nonostante ci sia qualche barlume di fermento, a Napoli siamo distanti anni luce dalla scena londinese; è però vero che Napoli ha un animo molto scuro, diverso da quello dei cieli plumbei londinesi, ma che ha fortissime analogie con Londra. Poi, come hai detto tu, c’è anche la questione linguistica. Il napoletano, in quanto lingua tronca, è molto assimilabile all’inglese tanto che una delle cose più “felici” credo sia il rap napoletano, perché ti consente di avere un flow incredibile.
C: Londra e Napoli sono due posti molto antichi, che trasudano cultura e storia, talvolta anche molto contraddittoria. C’è tanta ipocrisia e un enorme divario economico che accomuna le due città. Sono entrambe un contenitore di migliaia di contraddizioni, di gente diversissima. Hanno tante cose in comune.
Proprio per questo spirito contraddittorio tipico di Napoli, voi rappresentate una faccia molto diversa dalla Napoli di Gomorra e del suo rap, diversa anche dalla Napoli impegnata dei 99 Posse o dei gruppi che gravitano intorno a quella forma di musica. Voi raccontate un lato patinato e colorato, più artistico.
Assolutamente! Noi non raccontiamo molto la città o, se lo facciamo, è perché accade di riflesso nelle canzoni. Le nostre canzoni raccontano molto di noi, sono un pretesto per dirci qualcosa che non ci diciamo. Non siamo dei buoni trovatori né degli storyteller. Siamo condizionati da quello che vediamo però non c’è un legame tangibile, come accade con gruppi tipo i 99 Posse. Non so se questo sia davvero il momento storico che mi va di raccontare, faccio fatica a mettere insieme i pezzi per poter raccontare quello che stiamo vivendo. Preferisco vivere Napoli da spettatore, magari per raccontarla dopo che ci avrò capito qualcosa, in maniera meno introspettiva rispetto a quello che esce adesso dalle nostre canzoni.
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Tutte le foto sono di Fabrizio Vatieri
Tornando al vostro nuovo lavoro: secondo me “GOOOD” nasce da un suono riconducibile al 2011. In quell’anno trovi Sbtrkt, Rustie, James Blake, The Weeknd, Flume, artisti che hanno fortemente influenzato il vostro suono. Si potrebbe pensare che “GOOOD” abbia allora suoni fuori tempo massimo ma non è così, perché prosegue e rielabora suoni che fecero di quel preciso periodo un anno importantissimo per la musica elettronica. Che tipo di percorso può intraprendere questo vostro nuovo lavoro?
Credo ci sia stata una continuità a partire proprio da quell’anno, che è stato un punto di partenza per un percorso che è tuttora più che caldo. Prendi Sampha o Moses Sumney ad esempio. L’attenzione che in quegli anni c’era per l’indie rock oggi è rivolta verso questa forma di nu-soul o r’n’b. È un suono molto trasversale, non serve aver ascoltato Herbie Hancock o il jazz per capire che il disco di Gambino o Sampha siano fighi, o lo stesso King Krule.
Voi come avete sviluppato questo discorso quando avete iniziato a fare musica? Che tipo di paletti vi siete dati?
C: È Alfredo che li ha dati! Lui ha tutta una serie di strumenti che non ama, tipo le chitarre che virano verso il rock. Ha voluto da subito impormi di non fare cose troppo rock.
A: Chiariamo questa cosa: Carola è una bravissima chitarrista, ed è così che ci siamo conosciuti (suonava nei Fitness Forever).
C: Stavo preparando il mio disco da sola, ovviamente con la chitarra. Lui mi ha detto: “Carola, la chitarra no!”.
Mi è piaciuta la frase di Alfredo in cui ci raccontava che spesso la vostra musica diventa un modo per dirvi cose che in faccia non riuscite a dirvi. Allora vi chiedo: cosa vi dite attraverso la musica?
C: Nel primo Ep raccontavo le sensazioni che provavo nei suoi confronti, le turbe mentali che si hanno in ogni coppia che si rispetti. Stavamo insieme da poco e ho sfogato dei rancori. È stato un modo per parlarci a vicenda, perché poi lui ha risposto in altre tracce. In questo nuovo lavoro c’è invece un discorso diverso, ci sono pezzi che non parlano di noi ma che analizzano situazioni anche non nostre. Ci parliamo sempre, ma parliamo anche di altre cose e, soprattutto, raccontiamo storie.
Manca la traccia killer, trovo inaccettabile non abbiate sviluppato “Uuhh Aahh”, mi sembra un lavoro che abbiate volutamente limitato, quasi a dire: “Per ora può bastare un assaggio“. Come vi è saltato in testa di tenere “Uuhh Aahh” come interludio? È una bomba!
C: Missione compiuta allora! Ti spieghiamo: da una parte il fatto di avere una Label, una discografica, comporta un discorso sui tempi. Io avrei messo altri sette pezzi, ero molto ispirata infatti abbiamo scartato ben quattro pezzi per mancanza di tempo. Se ci fai caso però – e ci hai fatto caso – abbiamo lasciato qualche traccia negli interludi. Alcuni di questi torneranno, non so dirti in che forma. Siamo una band molto solitaria, non abbiamo produttori né aiuti, nemmeno nei video, e abbiamo bisogno di tempo. Per il prossimo lavoro vogliamo prenderci più tempo e sviscerare tutto fino alla nausea. Con “GOOOD” non abbiamo ancora toccato questo vertice, abbiamo fatto abbastanza in fretta. Siamo contenti ma vogliamo fare molto di più.
A: In mezzo c’è stato tutto il tour, per cui mi piace pensare che questo disco sia più una raccolta di appunti, anche di cose solo accennate.
Senti Alfredo: tu ti reputi un beatmaker ?
A: Mi affascina molto la definizione, proprio nell’accezione che ha avuto questa parola a partire da fine anni 80. Mi piace l’idea di fare qualcosa riciclando qualcosa che è già esistito. Non mi definirei un beatmaker perché il mio approccio è diverso, è essenziale. Ho sempre cercato di lavorare in questo modo e credo di sentirmi più un musicista, ho studiato musica classica e pianoforte. Detto questo, mi piace l’idea di lavorare con delle regole facendo uno sforzo più intellettuale che tecnico, che è proprio dei beatmaker se vuoi. Apprezzo molto il loro lavoro proprio per questo approccio più intellettuale naïf che tecnico, che fa uscire delle cose meravigliose.
Quanto è difficile per te, Carola, confrontarti con un modo di fare puntiglioso come può essere quello di un beatmaker, almeno nell’approccio al lavoro, rispetto al tuo che consiste in una composizione più fisica, o di pancia? Il beatmaker per lo più lavora da solo.
C: Essendo musicista anche io, molti pezzi li arrangio io. In “ A Secret” ho fatto la linea di basso, avevo l’idea di suono, per cui c’è molto confronto. Non mi sono mai sentita frustrata o castrata da lui, siamo completamente equilibrati nella band. Siamo entrambi tosti, ci rompiamo le palle a vicenda anche perché io ho un po’ quelle derive troppo “Mariah” che vanno contenute.
Voi avete dalla vostra anche l’immagine. Siete belli, in più lo show che porterete a Linecheck e in giro è fatto soprattutto di immagini. In fase compositiva lavorate già anche alle immagini del pezzo o è una cosa che accade a lavoro finito?
A: Molto spesso le suggestioni visive ed estetiche arrivano in simbiosi con quello che stai scrivendo. Può capitare che spesso una canzone sblocchi il concept del disco anche da lato visivo. Io nella fattispecie ho sempre lavorato a 360 gradi, gli studi che ho fatto mi hanno fatto vedere le cose nella loro completezza.
È un valore importante l’estetica nel genere che fate?
A: Io credo lo sia in tutti i generi. Io stesso da fruitore scarto spesso band che si presentano male o con copertine che non mi piacciono. Penso che molta musica indipendente stia facendo passare una certa sciatteria, come se chiunque potesse stare su un palco con lo stesso maglioncino di merda che porto in casa quando guardo Netflix, dicendo cose nelle canzoni che dovrebbero toccarmi lo stomaco. Non mi piace questa cosa. Non penso più all’irraggiungibilità dell’artista, al mito inarrivabile, perché è una cosa talmente anacronistica che non può accadere in un momento in cui l’accessibilità è diversa e si è rivoluzionato tutto. Quello di cui parlo è una cosa contemplativa, mi piace ci sia ancora questa catarsi tra chi guarda e chi sta sul palco.
Anche perché, diversamente, non si chiamerebbe spettacolo…
C: Esatto! È intrattenimento. Sarebbe come presentarsi a casa di tua suocera vestita una merda.
Giochiamo a Marzullo: vi sentite padroni del vostro destino come band o gli Yombe sono indissolubilmente legati alla vostra storia d’amore?
C: Ti rispondo filosoficamente: il mondo è una cosa stupenda che ha un senso geometrico, ma è tutto tranne che predestinato. Noi due siamo persone molto assennate che amano la musica forse di più di quanto si amino loro. Sono certa che se un giorno dovessimo avere problemi come coppia, Yombe continuerebbe ad essere comunque un progetto sensato. Yombe è una cosa indipendente da Carola e Alfredo.
A: Questo è un punto su cui cerchiamo di lavorare tanto. In linea di massimo l’arte non conosce regole né orari, per cui a volte è molto complicato gestire il confine tra la nostra vita privata e il lavoro, quindi stiamo cercando di lavorare molto su questa cosa.