Questo disco è una seduta psichiatrica.
“Buongiorno, che cosa l’ha portata qui?”
Cambia la poltrona e siediti al posto di chi fa le domande. Sì, perché Zomby l’uomo con la maschera, Zomby il latitante, Zomby il misterioso, dimostra di essere, una volta di più, uno psicotico del suono.
Voglio provare a scrivere una recensione risparmiando tutte quelle definizioni come dubstep, jungle, drum and bass, trap, wonky, future garage, IDM (che calzano a pennello con il disco di cui sopra) e spiegarlo in altri termini. Te lo racconto con le allucinazioni.
“Che cosa l’ha portata da me, dunque?”
Due dischi, trentatré tracce di cui solo una manciata superano i tre minuti. Zomby si siede sulle colline di sabbia del suo passato e ne gestisce il futuro, impastando con la saliva castelli pericolanti, ma che, come accade solo nei sogni, restano in piedi; in equilibrio come scheletri di plastica in un laboratorio, ma senza fil di ferro a unirne le ossa. Un disco claustrofobico come un labirinto con una sola uscita, i corridoi stretti e bui, costruiti per il panico, lì dove arrivati a una svolta, questa s’interrompe in un muro; come le tracce lasciate a metà, consuetudine ormai assodata per il nostro paziente. Zomby non verrà alla tua festa, perché è nascosto in un armadio, a guardarti mentre ridi e bevi e chiacchieri, ad ascoltarti attentamente, per poi donarti loop di oscurità. I sogni non sono sogni, sono incubi.
La personalità borderline che traspare nei repentini cambi di umore, cunicoli di ansie che si aprono in apostrofati spruzzi di tetra gioia, come la calma del mare d’inverno. Incubi, si diceva, collocati, nemmeno troppo ambiguamente, nei sobborghi di Londra, quei sampler vocali, quei beat e delay, ghiacciati e bagnati di pioggia, quei ponti di ferro e ruggine che collegano le industrie e i ghetti ai margini della civiltà con il resto del mondo, così come già fecero, permettetemi il paragone, Dusk e Blackdown nel 2008.
“Che cosa le fa paura?”
Zomby entra nel lago, fino alle ginocchia, la nebbia dell’inverno ad avvolgerlo come fosse lo spettro di un dio tribale, poi scende, lentamente, a sedersi sul fondale e a suonare un pianoforte, riempiendosi i polmoni, gonfiandosi come il cadavere di Laura Palmer, ma sapendo che, sulla spiaggia, non ci arriverà mai. Perché le onde spingono a riva solo ciò che non può più opporre resistenza.
Invece Zomby sta suonando. Si sentono, rimbalzare soffocati, tra le pareti della sua stanza imbottita, i lamenti che sembrano uscire dalle fauci di Untrue (Zomby è Burial?) e la risata sarcastica di colui che ancora una volta chiamerai il genio alla mia festa, ma non verrà. Perché questo è: un genio tormentato.
Sì, ecco, lo racchiuderei in queste ultime parole “With Love”, se dovessi farne una diagnosi: Zomby ha la faccia da schiaffi, in senso lato, lo picchieresti. E’ la sua forza e la sua sofferenza, perché è come se volesse farti capire che è imprendibile, ma allo stesso tempo sono anni che picchia pugni contro il vetro infrangibile dietro di te, implorandoti un aiuto inudibile, che nemmeno le tue spalle possono percepire. Un cuore che batte di terrore all’interno di una casa delle streghe abbandonata e chiusa dall’esterno. Con te dentro.
E te lo mette addosso, come rose nere su di una lapide. Con amore.